Dettagli Recensione
Un estremo slancio vitale nell’ora della morte
Grazia Deledda traccia un quadro della Sardegna di fine Ottocento seguendo le vicende di Anania Atonzu, figlio di Olì e di Anania il mugnaio. Quest’ultimo abbandona l’amante Olì, non potendola sposare essendo già maritato a Nuoro con l’anziana Tatana. Olì per l’amore con Anania era anche stata cacciata dalla casa paterna ed era stata costretta a sistemarsi nel villaggio di Fonni, da una parente dell’amante. Da zia Grathia Olì rimane per alcuni anni e intanto cresce il piccolo Anania, il figlio concepito insieme all’amante. Quando Anania è ormai prossimo agli otto anni, Olì sacrifica il proprio ruolo da madre e conduce con l’inganno il bambino a Nuoro dal padre e dalla matrigna. Olì scompare nel nulla e di lei non si avranno più notizie fino alle ultime tribolate pagine del romanzo. Anania, il protagonista del libro, si forma a Nuoro presso gli umili ambienti vissuti da suo padre mugnaio e da zia Tatana, la quale si rileverà una matrigna attenta e affettuosa. Il contesto nuorese nel quale è inserito il giovane è degradato: «Il piccolo Anania passava le sue giornate fra questa gente meschina e violenta, dalla quale apprendeva atti e parole sconce, abituandosi allo spettacolo dell’ubriachezza e della miseria incosciente». Spiccano ancor di più se paragonati al degrado circostante i componenti della famiglia Carboni, ricca casata di Nuoro che possiede grandi proprietà in diverse zone della Sardegna. Il signor Carboni elargisce aiuti a tutti coloro i quali ne hanno bisogno e diventa padrino di moltissimi bambini e ragazzi, tra cui anche Anania, il figlio del mugnaio. «Se il bimbo ha voglia di studiare la provvidenza non mancherà» afferma il giorno del battesimo del protagonista il padrino. E in effetti Anania non segue le orme del padre ma può studiare per diventare avvocato. Da Nuoro va a Cagliari, da Cagliari torna a Nuoro e raggiunge il continente, Roma. Oltre allo studio, il minimo comune denominatore dell’esistenza di Anania è il ritrovamento della madre Olì, dopo che durante l’infanzia aveva sempre sognato di ritrovare il padre in una sorta di inseguimento senza fine. Non è infatti un caso che poco dopo i vent’anni si imbarca per Roma: aveva sentito da un mercante di Fonni che Olì si era trasferita nella capitale dove conduceva una vita disgraziata, da donna di facili costumi.
Per Anania Olì diventa un’ossessione, dalla quale non riesce a liberarsi. Il suo obiettivo è «ritirarla dalla via della colpa e del vagabondaggio, anche sacrificandole tutto il suo avvenire». In effetti, ciò accade. Anania, ormai grande, è promesso sposo di Margherita, figlia del suo padrino. Quest’amore ha fatto parlare molto a Nuoro e la lontananza di Anania per motivi di studio l’ha cementificato. Tuttavia, nel momento in cui sembra che si possa concretizzare, perché Anania è prossimo a terminare gli studi e quindi a emanciparsi definitivamente dalla condizione servile della sua famiglia, ricompare Olì. In realtà, la madre di Anania non fa nulla per ripresentarsi: è il caso che la riporta sulla strada del figlio. È una donna malata, esausta della vita. Non è mai stata a Roma, ma ha sempre vagato per la Sardegna, legandosi a diversi uomini che puntualmente l’hanno abbandonata, a partire da Anania il mugnaio. Madre e figlio si ritrovano dove avevano imparato a conoscersi, ovvero a Fonni nella bettola di zia Grathia. In Anania c’è ferocia, unita a una consapevolezza: non lasciare più fuggire propria madre, a costo di perdere tutto quello che aveva seminato nel corso degli anni, compreso il futuro matrimonio con Margherita. «Figlio della colpa, abbandonato da una madre più disgraziata che colpevole, io sono nato sotto un astro terribile e devo espiare delitti non miei» scrive Anania a Margherita in una struggente lettera notturna datata 18 settembre. La replica di Margherita pone fine alla relazione: «Tu vuoi sacrificarti per il mondo; tu vuoi rovinarti e rovinare chi ti ama, solo per la vanità di sentir dire: “Hai fatto il tuo dovere!”». Nemmeno il tempo di metabolizzare questo turbolento epilogo che Anania perde un altro elemento femminile della sua vita: la madre. Olì, infatti, nello stanzino in cui aveva cresciuto il figlio negli anni a Fonni si taglia la giugulare.
Abbandoni, inganni, suicidio, eppure il finale non è di un romanzo tragico, bensì è un commovente slancio vitale perché si inserisce l’estremo sacrificio di una madre per un figlio. Anania riscopre il piacere dell’esistenza nel momento in cui incontra la morte. «Mai, come in quel momento, davanti al terribile mistero della morte, egli aveva sentito tutta la grandezza ed il valore della vita. Ed ecco ella, ella sola s’era riserbata il compito di rivelargli, col dolore della sua morte, la gloria suprema di vivere: ella, a prezzo della sua propria vita, lo faceva nascere una seconda volta, e questa nuova vita era incommensurabilmente più grande della prima». La stessa Olì nel delirio finale che precede l’estremo gesto racconta a zia Grathia: «Lo abbandonerò una seconda volta, ora che non vorrei lasciarlo più... Lo abbandonerò nuovamente per espiare la colpa del primo abbandono...». Olì ritorna cenere e così si spiega il titolo del romanzo della Deledda: tutto è cenere, la vita, la morte, l’uomo, il destino stesso che la produceva. Prima di abbandonarlo a Nuoro, Olì aveva regalato ad Anania un sacchettino con dentro un mucchietto di cenere e gli aveva chiesto di mantenerlo vicino al cuore tutti i giorni della sua vita. Anania l’ha fatto e quel sacchettino è servito anche come elemento di riconoscimento dopo tanti anni dall’abbandono. Di fronte alla spoglia più misera delle creature umane, che dopo aver fatto e sofferto il male in tutte le sue manifestazioni era morta per il bene altrui, Anania ricorda che «fra la cenere cova spesso la scintilla, seme della fiamma luminosa e purificatrice, e sperò, e amò ancora la vita».
Lo stile della Deledda in questo romanzo risulta in alcuni punti, soprattutto quelli descrittivi, ridondante ed eccessivamente retorico (abusata, ad esempio, la metafora del giovane come un uccello pronto a spiccare il volo). Per essere un volume di inizio Novecento, precedente a Il fu Mattia Pascal, l’approfondimento psicologico dei personaggi è notevole. Inoltre, l’autrice riesce a catapultare il lettore nell’atmosfera rurale di una Sardegna mezzadra e rude, cristallizzata in un eterno Ottocento, scenario ideale per il topos letterario post-coloniale dell’essere e sentirsi periferia di tutto. In questo intreccio di personaggi funge da ulteriore personaggio il paesaggio aspro e continuamente sconvolto dagli eventi metereologici, metafora della natura umana in balia di forze dalle quali può trovare solo temporanei ripari. Ecco quindi che i personaggi di Cenere vedono le cose succedere come ineluttabili eventi atmosferici, senza potersi mai davvero opporre.