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Una razza di demoni
"Ella sapeva com'eran fatti, tutti quegli Uzeda; quando s'incaponivano in un'idea, neanche a spaccargli la testa li potevan rimuovere; erano dei Viceré, la loro volontà doveva far legge! Ma da un giorno all'altro, quando uno meno se l'aspettava, senza perché, cangiavano di botto; dove prima dicevano bianco, affermavano poi nero; mentre prima volevano ammazzare una persona, questa diventava poi il loro migliore amico". Nella Catania risorgimentale spicca una delle famiglie più note e potenti dell'intero, ormai agonizzante, Regno Borbonico, quella degli Uzeda, principi di Francalanza, discendenti diretti dei viceré spagnoli. Conosciamo l'influente casata etnea in occasione della dipartita di donna Teresa, vedova del principe Consalvo VII, evento nefasto che scatena una guerra intestina in una famiglia già divisa nella sostanza da antipatie, inimicizie, rivalità, invidie, ma tenuta unita almeno nella forma dalla rigida ed inflessibile matriarca, donna dal carattere vulcanico capace di mettere in riga l'intera parentela, di tessere le trame dei rapporti sociali, dei matrimoni, degli affari economici, di risollevare e rendere florido un bilancio lasciato in pessime condizioni dal defunto marito. La triste dipartita della vedova scatena un inarrestabile effetto domino che metterà a nudo le divergenze, i contrasti, le insanabili dispute tra i consanguinei, cognati, fratelli, figli, nipoti, personaggi così diversi per aspirazioni, desideri, abitudini, ma accomunati dallo stesso cieco orgoglio e dalla medesima indole irascibile. L'iracondo cognato Padre don Blasco, l'avida cognata "zitellona" donna Ferdinanda, il trafficone primogenito Giacomo, il dissoluto favorito Raimondo, le diametralmente opposte Chiara e Lucrezia, il pestifero nipote Consalvo, sono i principali protagonisti dell'epopea, con i loro capricci, gli amori, gli odi, i peccati, le macchinazioni, le meschinità, le vendette. Unica eccezione la nipote Teresa, sorta di santa in una razza di demoni. Nonostante la prosa secca, asciutta, priva di fronzoli, tipica del Verismo e del romanzo storico, la mole delle pagine e la quasi totale assenza di colpi di scena, il racconto scorre bene, risulta godibile ed interessante. De Roberto è bravissimo a caratterizzare pienamente ogni personaggio, raccontando la storia con dovizia di particolari, in terza persona, senza mai dare giudizi esterni, lasciando che sia ognuno dei protagonisti a narrare dal suo punto di vista e a qualificare agli occhi del lettore, nel bene e nel male, il suo comportamento. Per lunghi tratti il libro segue un filone quasi teatrale, per le ambientazioni ristrette, i tempi dei dialoghi, la melodrammaticità delle atmosfere, la grottesca comicità di alcune scene. Un grande palcoscenico su cui si alternano i protagonisti e una serie di personaggi accessori che gravitano attorno agli Uzeda, servi, lavapiatti, faccendieri. A fare da scenografia, l'Italia alle prese con un'unificazione finalmente riuscita, dopo tante difficoltà, dal punto di vista geografico, ma impegnata in un'altrettanto tormentata opera di amalgama civica, politica, sociale che, sotto alcuni aspetti, continua invano ancora oggi. Contesto nel quale i viceré si immergono prima con riluttanza, poi con abile trasformismo, dimostrando che possono cambiare i tempi, le istituzioni, le forme del potere, ma difficilmente cambieranno gli individui che lo detengono, in un mondo in cui la forma varia in continuazione, ma la sostanza, troppo spesso, rimane la stessa. "Per lui, il buon popolo che si lasciava taglieggiare dai Viceré era stato pervertito da false dottrine, da sciocche lusinghe: egli era sicuro che prendendo a quattr'occhi uno di quelli che più vociavano «libertà ed eguaglianza» e dicendogli: «Se foste al mio posto, gridereste così?» il fiero repubblicano sarebbe rimasto in un bell'impiccio. La quistione, dicevano alcuni, era che questi posti eminenti, queste situazioni privilegiate non dovevano più esistere: ma allora Consalvo sorrideva di pietà. Quasiché, ammessa pure la possibilità d'abolire con un tratto di penna tutte le disuguaglianze sociali, esse non si sarebbero di nuovo formate il domani, essendo gli uomini naturalmente diversi, e il furbo dovendo sempre, in ogni tempo, sotto qualunque regime, mettere in mezzo il semplice, e l'audace prevenire il timido, e il forte soggiogare il debole! Nondimeno piegavasi, concedeva tutto, a parole, allo spirito dei nuovi tempi".
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Condivido, Enrico, la tua valutazione. Un testo interessantissimo.