Dettagli Recensione
Delitto e castigo
“Il marchese di Roccaverdina”, uno dei principali romanzi del Verismo italiano, uscì nel 1901 per i tipi dell’editore Treves di Torino, lo stesso che aveva pubblicato anni addietro “I Malavoglia” (1881), “Mastro-don Gesualdo” (1889) di Verga e anche “Il piacere” (1889) di D’Annunzio.
L’opera mi è piaciuta tantissimo: la ricchezza delle tematiche, la presenza di una figura principale forte e complessa, lo stile lineare, con pochissimi flashback, per chi ama i classici è un must read.
Un capolavoro quasi dimenticato, forse perché oscurato dalle opere dell’amico fraterno Giovanni Verga, con cui condivideva non solo la passione per la scrittura -vicina ai dettami del Naturalismo francese, adattato alla realtà del Sud Italia - ma anche per la fotografia, di cui il Capuana fu un vero maestro.
Il romanzo è ambientato nei luoghi in cui è nato e cresciuto l’autore, tra Rabbato e Margitello, nel catanese. Non si tratta di un giallo: al lettore verrà svelato nei primi capitoli che il marchese è l’autore di un terribile delitto.
La vittima, Rocco Criscione, suo devoto servitore, al punto di essere conosciuto col nome di “Rocco del marchese”, era stato costretto a sposare la donna che per dieci anni il padrone si era tenuto in casa come schiava e concubina, Agrippina Solmo, giurando che non l’avrebbe mai toccata, che sarebbero stati nella stessa casa come fratello e sorella.
Questa strana trovata del marchese era stata dettata dalla necessità di mettere a tacere lo scandalo che la sua condotta peccaminosa gettava sul buon nome della famiglia.
Purtroppo però, roso dalla gelosia e dal sospetto che i due fossero venuti meno al giuramento, il marchese in preda ad un terribile raptus con una “fiammata” del fucile uccide il servitore e non fa nulla per scagionare l’innocente, un certo Neli Casaccio, condannato per omicidio al posto suo.
Il perno del romanzo è il rimorso della coscienza del marchese, una sorta di “Delitto e castigo” verista: la celebre opera russa era conosciuta in Italia, basti pensare anche a “Canne al vento” della Deledda, pur con le caratteristiche che renderanno riconoscibile e irripetibile l’opera della scrittrice sarda.
Antonio, marchese di Roccaverdina, per tutta la durata della narrazione, cercherà in tutti i modi di mettere a tacere la voce della sua coscienza che gli rende la vita impossibile. I suoi nervi sono ipersensibili e si alterano per un nonnulla: le stesse “magherie” dell’amico Aquilante che lui tanto derideva prima del delitto, gli mettono addosso strani brividi e paure sconosciute, come quella di ritrovarsi da solo nel salone di casa. Ad un certo punto dona il grande crocifisso di legno a grandezza naturale ai frati della vicina parrocchia, perché non riesce più a passare per lo stanzino in cui era sistemato da decenni, senza tremare:
“egli rivedeva il gran Crocifisso che lo guardava, lo guardava con gli occhi velati dallo spasimo dell'agonia, agitando le labbra tumide e pavonazze per pronunziare parole che non prendevano suono (…)”
Per alleggerire la coscienza rivela in confessione il delitto allo smilzo don Silvio, che di là a poco morirà col suo segreto. Ma ciò non basterà a calmare i suoi nervi. Le stesse dottrine positivistiche, di cui si fa portavoce suo cugino, il cavaliere Pergola, riusciranno solo per poco a far respirare il nostro marchese.
«Avete gli occhi chiusi, caro cugino. Se credete di guadagnarvi il paradiso!... Il paradiso è quaggiù, mentre respiriamo e viviamo. Dopo, si diventa un pugno di cenere e tutto è finito.»
«E l'anima?»
«Ma che anima! L'anima è il corpo che funziona; morto il corpo, morta l'anima. Chi ha mai visto un'anima? Soltanto don Aquilante e i pochi pazzi suoi pari si illudono di parlare con gli Spiriti.» «Che ci assicura che sia come dite voi?» «La scienza, l'esperienza. Nessuno è mai tornato dall'altro mondo...(…)
Un romanzo interessante, ligio ai dettami del Verismo, che cala le vicende in luoghi reali, in epoca post-unitaria. Le credenze religiose vengono attaccate su un doppio fronte: dalla scienza positivista e dalle idee evoluzionistiche (il cugino) e dallo spiritismo (don Aquilante). Questi personaggi sono assolutamente pittoreschi e contraddittori: l’uno, ateo e scettico, credutosi moribondo si fa riempire la casa di reliquie di santi, tutte provenienti dalle vicine chiese, e sposa la donna con cui ha convissuto in peccato tanti anni e l’altro, l’avvocato, uomo di legge colto, che cede alle lusinghe dello spiritismo e delle scienze occulte.
Da segnalare l’uso di proverbi del luogo, proprio come nei romanzi di Verga, lo spaccato di vita contadina, di cui la fa parte lo stesso Antonio dei Roccaverdina, “il marchese contadino”. I braccianti e i lavoratori conducono una vita dedita al sacrificio, legata al ritmo e al capriccio delle stagioni, dove il raccolto non è all’altezza delle grandi culture intensive del Nord Italia e del Nord Europa.
Nodo cruciale della questione meridionale:
“Noi abbiamo quel che ci meritiamo», aveva soggiunto il marchese. «Non ci curiamo di associarci, di riunire le nostre forze. Io vorrei mettermi avanti, ma mi sento cascare le braccia! Diffidiamo l'uno dell'altro! Non vogliamo scomodarci per affrontare le difficoltà, né correre i pericoli di una speculazione. Siamo tanti bambini che attendono di essere imboccati col cucchiaino... Vogliamo la pappa bell'e preparata!»
Un capolavoro (quasi) dimenticato da recuperare, sia per la ricchezza delle tematiche, sia per la complessità psicologica del protagonista.
Indicazioni utili
Commenti
1 risultati - visualizzati 1 - 1 |
Ordina
|
1 risultati - visualizzati 1 - 1 |