Dettagli Recensione
«Un mucchietto di polvere»
Esistono romanzi così profondi, complessi, ricchi e stratificati che per quanto si possa leggerli e rileggerli attentamente si ha sempre la netta sensazione di non riuscire a comprenderli fino in fondo. Le sfumature, i dettagli, i livelli di lettura sono così tanti e così sottili da lasciare quasi disorientati. E se già capire davvero un libro del genere è una faccenda complicata, scriverne una recensione, poi, è ancora più difficile. "Il Gattopardo" di Tomasi di Lampedusa è indubbiamente una di queste opere.
Si può dire che "Il Gattopardo" racconta la decadenza della nobiltà borbonica attraverso le vicende dei principi Salina: la famiglia aristocratica protagonista della vicenda riesce infatti a conservare intatti il prestigio e i privilegi all'indomani del 1861, ma al contempo vede i patrimoni disperdersi e gli immensi feudi disgregarsi un giorno dopo l'altro, come una zolla di terra stritolata in un pugno, davanti alla spinta incalzante di una modernità che i sonnolenti aristocratici del Sud non riescono a capire né a seguire.
Si può dire che racconta la delicata fase di passaggio dal Regno delle due Sicilie all'Unità d'Italia e, allo stesso tempo, l'ultima fase della parabola esistenziale del principe Fabrizio, quasi uno specchio che riflette il tramonto del mondo borbonico e ne condensa il significato essenziale. A questi temi fondamentali si ricollega il senso di morte e di decadenza che abbraccia entrambe le vicende, quella di Fabrizio e quella della vecchia nobiltà giunta al termine del proprio ciclo vitale e costretta a mutare forma per sopravvivere. Il profumo dolciastro del disfacimento, tanto nauseante quanto seducente, sembra giungere a Tomasi di Lampedusa direttamente dalla temperie decadente ottocentesca, permea il racconto e trova l’incarnazione perfetta nell’amatissimo cane del principe Fabrizio, Bendicò. «Fai attenzione», scrive l’autore in una lettera a un amico, «il cane Bendicò è un personaggio importantissimo ed è quasi la chiave del romanzo». Così importante da finire ridotto a «un mucchietto di polvere», come tutto il resto, il corpo stesso del principe, lo splendente Tancredi o le reliquie gelosamente custodite dalle vecchie principesse.
O ancora, protagonista del racconto è il necessario compromesso tra il vecchio e il nuovo: quest'ultimo viene sì accolto, perché bisogna farlo, perché altrimenti calerà come una scure spietata sulla testa di chi lo rifiuterà, ma per indirizzarlo nella direzione giusta, che tutto sommato non è poi tanto diversa da quella precedente. E il latte dal sapore dolcissimo della sopravvivenza aiuta a mandare giù anche i bocconi più amari, come un matrimonio molto al di sotto della propria classe sociale o la protezione e l'amicizia di soggetti che nel mondo di prima non si sarebbero mai potuti neanche avvicinarsi ai Salina.
"Il Gattopardo", insieme ad altre opere come "I Vicerè" di Federico De Roberto, segna la nascita di un nuovo modo di rappresentare la storia nel romanzo: essa non è più finalizzata al progresso e alla felicità dell'uomo, secondo la concezione ottimistica tipicamente ottocentesca, al compimento delle "magnifiche sorti e progressive", ma è una macchina spietata, insensata, che travolge gli uomini e i destini privati e non fa che portare nuove sofferenze, nuove ingiustizie, nuove tragedie.
Quale di queste interpretazioni è quella principale? Tutte, e nessuna. Tutte sono essenziali, ciascuna svela una prospettiva fondamentale del racconto, ma non può fare a meno delle altre, nessuna è in grado di abbracciare l'opera nella sua interezza e svelarne ogni segreto. Capire davvero, fino in fondo, un romanzo del genere è impossibile. Ci sarà sempre qualcosa che sfugge. Tutto quello che si può fare è abbandonarsi al piacere di una scrittura straordinaria, capace di indagare le pieghe più minute dell'animo umano con un'acutezza, una lucidità e una dolorosa compassione che hanno pochissimi uguali in letteratura.
Forse l’unica, possibile interpretazione globale si intravede nel cane Bendicò, che, come afferma l’autore, è «quasi la chiave del romanzo» ("quasi", appunto, perché neppure questa possibilità di lettura può dare il senso pieno del romanzo senza le altre): tutto passa, tutto cambia, tutto muore o si trasforma. Di tutto ciò che gli uomini desiderano e amano e aspettano e tramano per ottenere, alla fine, non rimane nulla. L'amore, il potere, la guerra, il denaro, la gloria. Tutto, perfino le illusioni, finisce così, in un misero «mucchietto di polvere», proprio come il povero Bendicò. La vita sembra non avere un senso ultimo. Eppure, se anche si accettasse questa amara consapevolezza, in fondo che cosa cambia? La vita umana sarà pure una corsa affannata verso il nulla, ma cos'altro potremmo fare se non viverla?
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Grazie per il consiglio, ho già letto I Vicerè e ne ho anche scritto la recensione. È uno dei miei classici preferiti e per molti aspetti ricorda moltissimo Il Gattopardo.
Non sapevo della lettera in cui si indica Bendico’ come chiave di lettura… ma a ripensarci ha perfettamente senso
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Il romanzo è molto bello, ma mi è capitato di rileggerlo in un'edizione 'per la scuola' che la Feltrinelli ha approntato con sapienti tagli : mi è piaciuto ancor di più, non mancava proprio niente d'importante, anzi risultava più coeso e scorrevole, segno che ci sono pagine dispersive.
Sulla crisi dell'aristocrazia siciliana, voglio segnalarti un testo letto recentemente , coinvolgente e bellissimo : "I Viceré" di De Roberto, un grande classico che non avevo letto prima per un preconcetto di presunta pesantezza. Invece è una meraviglia.