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La palude
Molto spesso, nelle recensioni o nei commenti critici sui "Viceré", si legge che il capolavoro dell’autore napoletano racconta la decadenza di un’antica stirpe aristocratica, quella degli Uzeda, principi di Francalanza ed ex Viceré di Sicilia per conto dei sovrani spagnoli. Insieme alla decadenza di questa nobile famiglia, si racconta quella degli ideali e dei valori risorgimentali, destinati a tramontare nell’Italia postunitaria, soffocati dal dominio dell’interesse privato e dall’ossessione per il denaro. Nessuno potrebbe mai negare, in effetti, che la famiglia degli Uzeda, nella quale dominano i matrimoni tra consanguinei, sia drammaticamente corrotta nel sangue, nel corpo e nella mente secondo i principi naturalistici seguiti dall’autore, preda di malattie e deformità non solo fisiche, ma anche mentali. Non si salva proprio nessuno: Lucrezia è ossessionata dall’idea di sposare il giovane avvocato Giulente solo perché la sua famiglia si oppone per poi iniziare a odiarlo, mentre sua sorella Chiara prima fa fuoco e fiamme per non sposare l’uomo che le impongono, poi se ne innamora follemente, cade nell’ossessione di una gravidanza impossibile e non esita a compiere qualunque gesto pur di dare un figlio al marito. Donna Ferdinanda vive per accumulare denaro e suo fratello Ludovico in funzione della carriera ecclesiastica. E poi la vecchia principessa Teresa, ossessionata dal secondogenito Raimondo al punto da danneggiare volutamente gli altri figli pur di favorirlo, il principe Giacomo, che pensa solo a sottrarre al fratello e alle sorelle la loro eredità, il conte Raimondo, che insegue gonnelle solo per il puntiglio di sottrarsi al fastidioso vincolo matrimoniale.
Tutti sono vittime di una vanità e di un orgoglio che sconfinano nella patologia, perfino la dolce, buona, obbediente Teresina, che pur di continuare a essere lodata, apprezzata e amata da tutti, quasi come la santa di famiglia di cui porta il nome, sacrifica la sua intera esistenza ai voleri del padre. In ciascuno di loro c’è un pensiero dominante, che lo avvince completamente e finisce con il rovinargli la vita, un po’ come i personaggi di "La vita e le opinioni di Tristram Shandy gentiluomo" di Laurence Sterne. Caso emblematico è quello del conte Raimondo, che solo per puntiglio dichiara guerra all’intera famiglia per poter lasciare la moglie e sposare l’amante, salvo poi stancarsi anche di lei, ritrovandosi intrappolato per la seconda volta. Tutti inseguono la loro ossessione, non la felicità, e i risultati sono a dir poco tragicomici. Solo un grande talento come De Roberto può far morire dal ridere scrivendo un romanzo dal contenuto così deprimente.
Insomma, non ci sono dubbi che il termine “decadenza” calzi a pennello. Eppure leggendo il romanzo la sensazione più forte che si ricava è che in realtà l’intento dello scrittore non sia raccontare il decadimento di una stirpe, ma una situazione che cambia solo in apparenza, all’esterno, e in sostanza resta sempre la stessa. La materia di cui sono fatti gli Uzeda è identica a quella di cui erano fatti i Viceré loro antenati, secoli prima: orgoglio, vanità, pretesa di comando e di superiorità.
Lo stesso discorso, in un certo senso, vale anche per i fatti storici e sociali rappresentati. Il cambiamento sembra essere un fatto solo ed esclusivamente esteriore: i sovrani e i regimi si succedono, ma la realtà più profonda delle cose resta sempre uguale a se stessa nei suoi tratti fondamentali. A tenere le redini del comando, infatti, sono sempre loro, gli Uzeda. Tramontato il titolo di Viceré, siedono nel Parlamento della nuova nazione unita, ma in ogni caso continuano a occupare i primissimi gradini della scala sociale.
Lo stile è asciutto, secco, quasi teatrale, fondato solo sui dialoghi e sul discorso indiretto libero, e fa emergere l'orrore, il disgusto e il ridicolo senza bisogno di "spiegare" nulla. Tutto si manifesta da sé, perfettamente, nella sua evidenza cristallina e acquistando in tal modo ancora più forza, anche grazie alle numerose simmetrie sulle quali si regge l’architettura della narrazione: tra Chiara e Lucrezia (i cui percorsi sono, passo per passo, esattamente opposti), tra Ferdinanda e Consalvo (la prima inflessibile nella fede borbonica e conservatrice, il secondo pronto a mutare bandiera senza scrupoli per la brama di potere), tra Eugenio e Consalvo (il primo incarna forse più di chiunque altro la decadenza e la fine della vecchia nobiltà borbonica, mentre il secondo ha fiutato benissimo da che parte tira il vento e sa che la via della grandezza passa per Roma e il Parlamento).
Un gioco di equilibri, come se l'autore cercasse in qualche modo di dare un "ordine" alle caotiche follie degli Uzeda. Il parallelismo che forse colpisce più di tutti è quello tra l'inizio del romanzo, con il funerale da ancien regime della vecchia principessa Teresa, e la conclusione, con il modernissimo comizio elettorale di Consalvo: due mondi opposti che sanciscono un passaggio di regime, un passaggio nel quale, però, tutto sommato non è cambiato un bel niente. "Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi" dice Tancredi nel Gattopardo e ci sta a pennello.
E forse ancora oggi, in fondo, la sostanza è sempre la stessa. Nel suo discorso conclusivo agli elettori, Consalvo promette tutto e niente: libertà, ma moderazione, democrazia, ma con ordine, rispetto della religione, ma anche della ragione, rispetto delle tradizioni, ma largo al progresso... Non è poi tanto diverso da certi discorsi che si ascoltano ancora oggi. Forse ormai i discendenti dei Viceré non siedono più neanche in Parlamento, eppure si può dire che sia cambiato effettivamente qualcosa? L’impressione dominante, dunque, non è che l'Italia e con lei gli Uzeda siano decaduti da un’originaria grandezza, ma che tutto anneghi lentamente, inesorabilmente in una palude stagnante, da sempre.
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Potrebbe essere la mia prossima lettura : da alcune settimane il libro è lì sullo scaffale a portata di mano.