Dettagli Recensione
Loop (quasi) infinito
Considerato il romanzo che ha introdotto il tema della psico-analisi nella letteratura italiana, il mio approccio iniziale a “La coscienza di Zeno” è stato oltremodo positivo: nelle prime pagine il protagonista ci si presenta subito con forza, nel capitolo incentrato sul suo vizio del fumo che lascia già immaginare le controversie della sua psiche sulla quale, in fondo, il romanzo è incentrato. In certi casi m'ha strappato anche qualche risata, e pur essendo evidente l’inettitudine di Zeno si riesce a entrare in sintonia con lui e se ne seguono le vicende con vivo interesse.
A un certo punto però, succede qualcosa.
Le fisime di Zeno cominciano a pervadere il romanzo, che si trasforma in un rimuginio ininterrotto su quelle fisime stesse: un po’ alla maniera del Moscarda pirandelliano… ma con la differenza che stiamo parlando d’un romanzo lungo il triplo. Sebbene si percepisca bene quanto i conflitti di coscienza irrisolvibili di Zeno siano al centro della trattazione di Svevo, questi finiscono per sfiancare un lettore che, partito coi migliori auspici, si ritrova ad affrontare una lettura che diventa asfissiante, ripetitiva; in certi tratti davvero noiosa. In mezzo alla moltitudine dei suoi pensieri ricorrenti Zeno finisce, paradossalmente, con lo sfumare. È forse per questo che il romanzo si chiama “La coscienza di Zeno” e non semplicemente: “Zeno”, ma a quale prezzo Svevo ha veicolato il suo messaggio? Perché non v'è senz'altro dubbio che il messaggio sia arrivato, che il modo d'essere del protagonista sia venuto fuori... ma era davvero necessario indugiare così tanto sulle stesse dinamiche e sugli stessi voli pindarici della sua coscienza, per poi lasciare un così misero spazio alla rivalsa dell'inetto? Occorreva davvero portare alla nostra attenzione cosi tante volte il conflitto che coglie Zeno nella sua relazione extraconiugale? nell'amore per sua moglie e nel suo non-amore (forse) per la sorella di lei? nel suo rapporto col cognato?
Dopo "Uno, nessuno e centomila", in cui pure Moscarda rimugina fino allo sfinimento sugli stessi conflitti, mi sono detto che forse gli autori italiani che si soffermano su temi psicologici temano che i loro lettori siano un po' scemi e non possano afferrare un concetto se non ripetuto allo stremo. Diamine, cose che neanche il Raskol’nikov dostoevskiano, e lui aveva commesso un omicidio!
Insomma, io non nego l'importanza di questo romanzo e anzi ne ho ammirato l'inizio, da cui avevo tratto le migliori aspettative. Ma poi Svevo mi ha stordito, facendomi perdere interesse anche per quanto di buono (ed è tanto) ha espresso, ma che bisogna dissotterrare da un milione di parole e concetti che, troppo spesso, si ripetono.
Peccato.
“Il vino è un grande pericolo specie perché non porta a galla la verità. Tutt'altro che la verità anzi: rivela dell'individuo specialmente la storia passata e dimenticata e non la sua attuale volontà; getta capricciosamente alla luce anche tutte le ideuccie con le quali in epoca più o meno recente ci si baloccò e che si è dimenticate; trascura le cancellature e leggee tutto quello ch’è ancora percettibile nel nostro cuore. E si sa che non v’è modo di cancellarvi niente tanto radicalmente, come si fa di un giro errato su di una cambiale. Tutta la nostra storia vi è sempre leggibile e il vino la grida, trascurando quello che poi la vita vi aggiunse.”
Commenti
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Meno male ho fatto pace col Novecento grazie a Moravia, Vassalli, Bassani, e tanti altri. Senza rendermene conto ho letto molti romanzi torrenziali, anche Infinite Jest. Detto ciò, devo rileggere Svevo, anche se sono convinta che non regga con l’Ulysses di Joyce.
guarda, soprattutto nelle mie recenti letture ho capito che non esistono capolavori assoluti, e che tutti i libri sono criticabili. Non ho problemi a leggere libri di grande mole, ma credo che ci sia mole e mole. Mi spiego: "I miserabili" di Hugo o "I fratelli Karamazov" di Dostoevskij sono due libri che saranno il triplo della Coscienza, ma non mi hanno provocato lo stesso sentimento. Questo perché le digressioni di questi due libri si soffermano su diverse cose, ampliano dei concetti, mentre qui ho trovato qualcosa che si ritorce su sé stesso e che ripete sempre lo stesso concetto, mette in risalto sempre gli stessi conflitti. Attenzione, la cosa ci sta tutta, ma non così tanto! Per trasmettere i conflitti di Zeno era davvero necessario ripetere così tante volte sempre gli stessi? A mio giudizio, ovviamente soggettivo, no. Anzi, l'ho trovato anche piuttosto irritante. Ciò non toglie che i contenuti siano apprezzabili e lo sia anche il messaggio... difatti ho penalizzato la piacevolezza rispetto al resto, che è il parametro più soggettivo dei tre.
Sono d'accordo con te che una narrazione "Nacque, visse, morì" non sia soddisfacente, ma qui siamo all'estremo opposto: anzi, direi che Svevo non fa che parlarci che di pochissimi istanti della vita di Zeno, allungandoli fino allo sfinimento come se durassero decenni! Dal matrimonio di Ada alla morte di Guido non passano che pochi anni, ma sembrano almeno 10!
È questo quello che non ho apprezzato, ma magari qualcun altro può ritenerlo appropriato, non lo discuto assolutamente! ;)
condivido assolutamente il tuo pensiero sui romanzi Novecenteschi, che sono secondo me sono il periodo in assoluto migliore della narrativa italiana (e probabilmente anche mondiale, fatta eccezione per alcuni paesi come la Russia). Onestamente non amo né Joyce né ho amato Svevo, e immagino non sia un caso. Affronterò prima o poi altre opere degli autori ("Ulysses" e "Senilità"), ma il primo approccio con "Dubliners" e "La coscienza di Zeno" non è stato dei migliori; immagino non siano proprio nelle mie corde!
Io trovo che se una recensione è ben argomentata e sostenuta possa muovere contestazioni tanto ai classici quanto ai contemporanei. Ciò in virtù del fatto che la lettura è e resta un viaggio soggettivo del lettore ma anche in virtù del fatto che capolavori assoluti non esistono. Vale per tutte le cose, letteratura e non. Buone letture a tutti!
Anch'io credo che la ripetitività di Zeno sia uno strumento (a mio parere abusato) di rimarcare quello che Svevo voleva effettivamente trasmettere: i conflitti di coscienza. Credo sia un dato abbastanza oggettivo, ma ciò non toglie che lo si possa apprezzare o meno; così come si possono amare le digressioni di Dostoevskij e Hugo e odiare quelle di Tolstoj (come nel mio caso) ma anche viceversa. Credo che dopo aver scavato fino alle qualità oggettive d'un romanzo, il resto del giudizio stia tutto nel gusto personale.
Solo di una cosa sono convinto: tutti i romanzi, classici e odierni, hanno dei difetti. Tutti, nessuno escluso, e riservare le critiche solo ai contemporanei mi sembra ingiusto: sarebbe come ammettere che l'umanità ha esaurito la sua arte e credo che non sia vero (sebbene si vivano tempi duri in tal senso) e che siamo una generazione che non potrà mai eguagliare le altezze del passato. Sai che c'è invece? Per quanto grandi, Svevo, Verga, ma anche i più grandi come Dostoevskij o Dickens o Dante hanno compiuto degli errori. Ciò non ci impedisce di apprezzarne i pregi. E chi dice che non possano esserci, in mezzo a noi, scrittori altrettanto grandi?
Ecco perché, se ho davanti un classico o un libro contemporaneo o di qualsiasi altro genere, il mio approccio è il medesimo.
Poi il "mi piace" o "non mi piace" è una mera espressione del gusto soggettivo.
Buone letture! :)
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