Dettagli Recensione
Nemmeno questo è un uomo
Questo non è un romanzo, e colui che lo ha scritto non è uno scrittore, nella vita faceva tutt'altro, era un chimico; e però per i casi della vita, e di quelli più tragici, è divenuto suo malgrado un testo essenziale per la crescita intellettiva di ognuno di noi.
Un libro che non può mancare nelle competenze dei protagonisti del vivere civile, meglio ancora quando più sono giovani, facilmente ricettivi ad assorbire quanto rilevato, e sopratutto a non dimenticarlo.
Perché ricordare, mai come in questo caso, è necessario, direi indispensabile.
Primo Levi non è un romanziere, e perciò la sua scrittura non è fluida, armonica, articolata; non si perde in iperbole o allegorie del buon scrivere, non è uno scrittore in senso classico, ha uno stile asciutto, scarno, freddamente cronologico, a tratti nervoso.
Eppure descrive bene quello che è essenziale riportare, quello che desidera mostrare all'umanità intera, e così facendo emoziona, coinvolge, compartecipa i lettori nelle vicende che descrive, proprio perché non è uno scrittore, ma è molto di più: un testimone.
Direi una rarità, un diretto testimone, molto attendibile, un cronista in presa diretta, un’Oriana Fallaci presente in prima linea, sul posto degli orrori.
Una mente lucida e scientifica, in grado di riportare le vicende vissute, con sgomento ma attendibilità, attenendosi esclusivamente ai fatti crudi che lo vedono protagonista, anche se sono fatti di orrore allo stato primordiale.
Il tutto filtrato dalla sua sensibilità di comune mortale, per niente una persona fuori dall'ordinario.
Primo Levi è stato un intellettuale che ha vissuto sulla propria pelle, assai di più nella sua mente e nel suo animo lacerato, il più vile sterminio di popolo, voluto dalla follia nazista, recluso in un campo di concentramento tedesco durante gli ultimi tempi prima della caduta del Reich.
E per fortuna sua, perché come da lui stesso ammesso, fosse durato ancora un poco la sua prigionia, non sarebbe sopravvissuto per raccontarla, tanto indicibili erano le condizioni di vita in cui erano costretti non per sopravvivere, ma per trascinarsi fino all'epilogo inevitabile.
Fin dall'inizio Levi comprende di trovarsi letteralmente in un Inferno dantesco, ma senza niente di letterario o di allegorico: solo fame, botte, umiliazioni fisiche e morali, demolizione completa dei corpi e degli spiriti secondo un ordine logico, assurdo, irreprensibile e irrevocabile, banale nella sua essenza come sempre sa essere banale il Male.
La stessa ignobile, lurida, beffarda, bugiarda, laida insegna all'ingresso del campo di sterminio, o di sterminio tramite lavoro estenuante fino a consumare le persone, come vogliamo definirlo, quella tristemente nota che recita “Il lavoro rende liberi”, redatta nella lingua gutturale dei presunti superuomini, altro non è, per il colto Levi, che un preciso richiamo a ben altra, e assai più nobile insegna, la famosa “Lasciate ogni speranza o voi che entrate” all'ingresso dell’Inferno dantesco.
Così come all'opera di Dante richiama il medico che seleziona crudelmente, con asprezza e immorale malignità i deportati secondo le attitudini lavorative, deciso a trarne ogni forza lavoro fino allo stremo dei poveri sventurati: del tutto identico, nell'immaginario del recluso Levi al Minosse distributore dei dannati nei vari gironi infernali.
Lavoro fino allo stremo, e indegnità, e crudeltà, e vessazioni, e botte, e affamamento, tutto il campionario dei campi di concentramento nazisti è sciorinato addosso ai poveri sventurati, tutto è disumanamente attuato per l’annientamento fisico e morale dei prigionieri, la loro forzata degradazione a reietti, a larve umane, la maniacale progressiva persecuzione volta alla degradazione dell’uomo da parte di altri uomini, fino alla perdita, alla completa cancellazione di ogni sorta di dignità umana.
Fino all'epilogo finale, scontato, e presagito da subito allorché si viene schedati all'arrivo e identificati da un numero progressivo.
Basta poco a comprendere che è in realtà un codice, che indica il numero di prigionieri transitati per il campo, un numero assai superiore alle poche migliaia effettivamente presenti, in visibile appello quotidiano: non è difficile pervenire alla tragica conclusione.
Quello che è il dolore più grande, il vero trauma amaro, straziante, angoscioso, è la constatazione, la triste verifica di quanto accade, quanto può verificarsi a un uomo quando posto in simile atroci condizioni di vita, si riduce inevitabilmente a qualcosa di degradante, abominevole, funesto e infelice: alla perdita totale della propria umanità.
Non più dignità, nessuna decenza; nessun onore o onorabilità, meno che mai nobiltà o correttezza, per non parlare di solidarietà concordia, aiuto, mutua assistenza.
Ognuno per sé, ciascuno per sé; e la moralità dei prigionieri sopravvissuti diviene pari a quella dei propri carcerieri.
Qualcuno, come Levi stesso, si chiede i motivi, ne cerca le ragioni, continua tenacemente a credere nell'unità, nell'intesa, nel calore, nella condivisione, ma lui e altri come lui sono semplicemente sommersi dall'inevitabile, spietata indole di sopraffazione che prende coloro che, spogliati dall'ultima parvenza di umanità, desiderano semplicemente salvarsi, anche a costo di divenire, per esempio, un kapò, passare tra le file degli aguzzini a danno dei propri compagni, magari solo per una razione di cibo supplementare. I sommersi e i salvati.
Si salverà Levi da questi orrori, la scamperà, anche se lui è con tutta evidenza un sommerso, sia pure per caso, e ne porterà allora testimonianza diretta di quanto ha vissuto, quasi una forma di redenzione personale, una remissione del peccato, e ne scriverà allora accuratamente.
In prosa, come in versi.
Gliene siamo grati, tutta l’umanità deve innalzargli un monumento per aver levato la sua voce.
Anche se…talora mi viene da pensare, davanti a certe immagini. Se davvero è servito.
Perchè nemmeno questo è un uomo, dottor Levi, dopo decenni, dopo una Resistenza, costretto a emigrare stipato su un barcone sconnesso, o su un gommone sfiatato, a rischio della vita, dopo aver pagato il viaggio con fame e con botte, violenze di ogni genere, specie se donne; e tutto per…per un po’ d’erba al limite dei feudi. Forse.
Nemmeno questo è un uomo, costretto a urlare la sua rabbia contro una recinzione, a piangere con i figli al gelo sugli scogli.
Nemmeno questi sono uomini, perché non sono di razza ariana, per loro i porti sono chiusi. Sempre.
Considerate se questo è un uomo.
Indicazioni utili
Commenti
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Altro testo di Levi apparentabile a questo e quasi complementare penso non sia "La tregua", bensì "I sommersi e i salvati", che assume il titolo appunto da un capitolo del libro recensito.