Dettagli Recensione
Un gioco di luce
Pubblicato a Milano nel 1891 con scarso successo di pubblico e critica, "L’illusione" è il secondo romanzo composto da De Roberto e inaugura il ciclo degli Uzeda, principi di Francalanza e antichi Viceré di Sicilia per conto dei sovrani spagnoli. L’opera segue dall’infanzia alla maturità le vicende di Teresa, figlia del conte Raimondo Uzeda e dell’infelice nobildonna Matilde Palmi, che torneranno di lì a poco nei "Viceré". La loro storia, o meglio quella della loro figlia, nei "Viceré" si riduce a uno squarcio, eppure il progetto del ciclo derobertiano nasce proprio con "L’illusione", sebbene la storia di Teresa sia cronologicamente posteriore a quella dei "Viceré" e più o meno contemporanea a quella dell’ "Imperio", il terzo e ultimo elemento del trittico letterario.
Se "I Viceré" indaga la corruzione e il disfacimento della vecchia classe aristocratica siciliana e "L’imperio" porta alla ribalta fasti e miserie della politica post-unitaria, "L’illusione" si incentra totalmente sul tema dell’amore sentimentale e sulla vita della protagonista, che, dopo un’infanzia e un’adolescenza segnate da aspettative del tutto illusorie, è costretta ad accettare, con l’avanzare degli anni, che la realtà è ben diversa da quella che sognava e che l’intera esistenza umana si riduce, in fin dei conti, a un’illusione.
Anche Teresa, estroversa, vivace e appassionata, come molti altri personaggi del romanzo ottocentesco vede la realtà attraverso un velo, le fantasie di amori cavallereschi, avventure galanti, passioni travolgenti, grandezza aristocratica che ha assimilato da bambina leggendo Scott, Dumas, Sue, Hugo, Prati, Aleardi, Tasso, Leopardi, Balzac, Manzoni, ascoltando fiabe e romanze, guardando opere teatrali che hanno finito con il «guastarla», come profetizzava la zia di Teresa, perché non è stata capace di separarle dalla realtà. Da qui discende la lunga, triste trafila di errori, inganni e rimpianti che costellano e scandiscono la sua esistenza, negativamente influenzata, forse, non soltanto da una fantasia troppo accesa e troppo coltivata, ma anche dalla profonda solitudine a cui Teresa è condannata fin da bambina a causa di gravissime perdite familiari e personali. Il nonno, un uomo vecchio stampo, sinceramente interessato al suo bene, ma burbero e insensibile, e la presenza occasionale degli zii, affettuosi, ma pronti a voltarle le spalle se dovesse uscire dal cammino tracciato per lei, non bastano a riempire una vita che appare desolatamente vuota, priva degli affetti più solidi e naturali. Passando da un amante all’altro, da una distrazione all’altra, da un corteggiatore all’altro, la giovane Teresa cerca disperatamente di riempire un vuoto incolmabile.
Tale vuoto convive, dentro di lei, con una scissione profonda e insanabile che la fa sentire «rotta in due» per tutta la vita: Teresa è infatti costantemente divisa tra il modello di rassegnazione e sopportazione rappresentato dalla madre, il cui amaro destino di moglie infelice prefigura quello della figlia, e il modello di sregolatezza e orgoglio aristocratico di suo padre, il libertino conte Raimondo, come se gli errori dei genitori fossero geneticamente, inesorabilmente scritti nel sangue dei figli. Teresa sembra cedere all’esempio paterno e sceglie un cammino molto diverso da quello di Matilde, sua madre, e della sua omonima cugina (la Teresa Uzeda dei "Viceré", sorella di Consalvo), cercando conforto negli amanti e nella vita mondana e sostenendo con passione il diritto delle donne di godere degli stessi privilegi degli uomini, eppure non sarà più felice di loro. Nessuna delle due scelte sembra essere quella giusta.
L’illusione che qui investe l’amore e i desideri giovanili colpisce nei "Viceré" il sangue aristocratico e nell’ "Imperio" il mondo della politica e del governo. Non a caso un fitto intreccio di echi e richiami lega i tre romanzi che costituiscono il ciclo degli Uzeda: la vicenda di Matilde e Raimondo è un filo rosso che unisce "I Viceré" e "L’illusione" e in quest’ultimo è citato di sfuggita il principe Consalvo, deputato a Roma e futuro protagonista del terzo volume; la figura dell’onorevole Arconti introduce nell’ "Illusione" la dimensione della politica, dei dibattiti parlamentari, delle questioni di governo che saranno il nucleo centrale dell’ "Imperio". Addirittura è stato osservato che l’infanzia turbolenta del figlio di Teresa ricorda quella del principino Consalvo. Le storie si ripetono, identiche, ancora.
Palese è il richiamo a "Madame Bovary" (infatti De Roberto conosce bene e ammira moltissimo Flaubert), ma anche a "Giacinta" di Luigi Capuana. Il bovarismo di Teresa, con la sua profonda insofferenza per la vita di provincia a Milazzo, insieme all’eccitazione della fantasia causata dalle letture romanzesche e cavalleresche e alla smania di far parte del bel mondo, è evidente e avvicina moltissimo l’eroina siciliana a quella francese. Rispetto ad Emma Bovary, però, Teresa appare dotata di una capacità di riflessione e analisi di se stessa e della realtà più profonda. Teresa, inoltre, si colloca in un contesto sociale più elevato, quello dell’aristocrazia, e ciò rende forse, per contrasto, ancora più amare le sue disillusioni. Altro legame importante è quello individuato con "La duchessa di Leyra", il romanzo incompiuto di Verga che, nelle intenzioni dell’autore, avrebbe dovuto colpire proprio le ambizioni aristocratiche e arricchire di un altro tassello il ciclo dei vinti. Il progetto verghiano non sarà mai portato a termine e L’illusione, riallacciandosi alla "Duchessa di Leyra", sembra esserne la prosecuzione ideale.
In fondo anche Teresa, come i personaggi verghiani, può essere definita una “vinta”. "L’illusione" presenta una struttura accuratamente simmetrica, divisa in tre parti: la prima inizia con l’infanzia e termina con il matrimonio e la partenza per la luna di miele; la seconda si apre sul viaggio di nozze, segue la difficile convivenza con il marito e si conclude con una nuova partenza per una seconda luna di miele; la terza e ultima parte racconta il tempo delle ultime illusioni, della maturità e del disinganno totale. Questo armonioso equilibrio strutturale, però, contrasta con il ritratto di un’esistenza dominata da incertezze, confusione, errori, ravvedimenti, ricadute, tutto osservato attraverso lo sguardo malinconico di Teresa. Sebbene il racconto sia in terza persona, l’autore fa un uso ampio e sempre più frequente da un capitolo all’altro del discorso indiretto libero e del monologo interiore: il risultato è una densissima analisi psicologica, un racconto introspettivo che si cala costantemente e profondamente nella psiche tormentata della protagonista, tra paure, desideri, capricci, speranze. De Roberto, infatti, definisce questo romanzo «un monologo di 450 pagine». Nella terza parte del romanzo Teresa si ripiega sempre più su stessa, impegnata ad analizzare criticamente il passato, a immaginare tristemente il futuro, a interrogarsi su ogni singola scelta che l’ha condotta verso l’infelicità e la solitudine, sedotta da «un vano giuoco di luce» che per tutta la vita si è ostinata a credere autentico.
«Nel credersi diversa dagli altri come s’era ingannata! La sua storia era la storia d’ognuno! Come tutti, aveva apprezzato le cose prima di ottenerle o quando erano svanite. […] E sul punto di chiudere gli occhi per sempre, la vita che prima di essere vissuta era piena di tante promesse, non si riduceva a un mero sogno, a una grande illusione, tutta? E poi? E dopo la vita?».
«Tutto è finzione» esclama l’onorevole Arconti, personaggio che riallaccia "L’illusione" al tema politico del romanzo successivo, "L’imperio". L’esistenza umana è un gioco di maschere su un palcoscenico. Tutto cambia, tutto passa, tutto finisce. Nulla è per sempre, neanche l’amore più puro e intenso, i sogni più dolci, le speranze più tenaci. Cosa resta, allora? L’uomo, qualunque scelta compia, è condannato per la sua stessa natura alla sconfitta, all’amarezza, al rimpianto, alla crudele disillusione, senza via d’uscita?
Forse sì, sembra rispondere Federico De Roberto.
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Commenti
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Grazie, Cathy.