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Eros e Thanatos
"L'amore è la più grande fra le tristezze umane perché è il supremo sforzo che l'uomo tenta per uscire dalla solitudine."
Terzo e ultimo dei cosiddetti “romanzi della rosa”, l’opera è incentrata sulla storia d'amore che vivono Giorgio Aurispa e Ippolita Sanzio. Si tratta di un rapporto alquanto tormentato che ha inizio a Roma, tra il profumo dell'incenso e delle violette, e ha fine in modo tragico in una località marina di quell'Abruzzo sempre tanto caro a Gabriele d’Annunzio.
Non privo di elementi autobiografici, il romanzo presenta una componente molto importante, forse ancor più dell'eros, che aleggia nel corso della narrazione: la morte, “l'invincibile”, come non a caso s'intitola il libro sesto. Questa, infatti, non si svela soltanto nella parte conclusiva, al momento del gesto folle dell'Aurispa, ma nel procedere della storia si possono scorgere diversi elementi che l’annunciano, rendendola così onnipresente: la chiazza nerastra lasciata dal suicida sulla strada, a Roma; Ippolita che cala il velo nero sull'ultimo bacio prima che Giorgio si rechi a Guardiagrele; il funerale del parroco del paese; il ragazzetto con la stampella del corteo funebre; il figlio della sorella Cristina, quel bimbo dalla grossa testa sempre china sul petto; il viso cadaverico dell'ingorda zia Gioconda; il violino dello zio Demetrio che sta chiuso nella custodia come un cadavere nella bara; il bambino annegato nelle acque di San Vito; le masse pellegrinanti a Casalbordino. Suonano tutti come presagi di morte, per non parlare del ricordo, sempre vivo nella memoria del protagonista, dello stesso Demetrio, lo zio suicida, l'uomo dolce e meditativo nel quale spiccava “una ciocca bianca tra i capelli oscuri che gli si partiva di sul mezzo della fronte”.
Una storia molto intensa, al pari dei suoi protagonisti: Giorgio, che “non poteva sottrarsi al bisogno di cercare la felicità nel possesso di un'altra creatura”, rappresenta forse la parte più tormentata, quella che più soffre all'interno della coppia; il suo è anzitutto un dolore spirituale che si acuisce ogni volta in cui viene meno il controllo su Ippolita. E non si tratta di un possesso puramente fisico quello al quale lui aspira. Lei, che è donna sensuale, anzi la voluttà in persona, finisce per rappresentare invece la parte più materiale poiché ostenta un terribile attaccamento alla vita, al suo corpo, a quello dell'amante e al sesso. Tanti sono gli aspetti sotto i quali d’Annunzio la presenta, al punto che la donna diventa via via quasi irriconoscibile rispetto alla creatura calma e dotata di singolare dolcezza quale era inizialmente apparsa. A tratti crudelmente puerile, come quando con un fermaglio infilza per le ali una farfalla crepuscolare, Ippolita finisce per diventare la “Nemica”, come più volte la definisce Giorgio. Particolarmente incisiva una delle sue ultime immagini: quando, durante la sera fatale, da novella Eva offre una pesca da lei morsa al compagno. Sempre durante quell’ultima sera, in Ippolita la trasformazione si porta a compimento e lei diventa ormai un essere voluttuoso e terrificante al tempo stesso, soprattutto quando le sue risa rompono il silenzio della notte: “Ed ella a un tratto fu presa da un riso nervoso, frenetico, incoercibile – lugubre come il riso d’una demente”.
Un romanzo che non gode della fama del ben più famoso "Il piacere", ma che merita non di meno una lettura.
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La mia lettura di questo libro risale a quando ero ero un ragazzo e non avevo la necessaria maturità per affrontarlo. Lo trovai così così.
Ora , quando desidero rileggere la prosa di D'Annunzio , vado dritto su "Notturno" : una scrittura magnifica.