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Delitto e castigo in Sardegna
La storia si svolge all’inizio del Novecento in un villaggio sardo, Galte. Qui vive quel che resta della nobile famiglia Pintor, ormai decaduta. Il servo Efix si prende cura delle tre sorelle rimaste, Ruth, Ester e Noemi, gestendo un piccolo podere appena sufficiente al loro sostentamento. Le tre dame abitano ormai in una casa cadente, in povertà. Le Pintor lo mandano a chiamare perché, dalla penisola, è giunta una lettera di Giacinto, figlio della quarta sorella, Lia. Nel racconto, Efix ricorda l’infanzia delle Pintor, sottomesse alle ferree regole del padre, Don Zame: prepotente e geloso dell'onore della famiglia, egli teneva le donne recluse in casa, dedite ai lavoro domestici nell’attesa di esser maritate a un buon partito. Ma Lia si ribellò a questa condizione e fuggì a Civitavecchia; l’indomani, Don Zame fu misteriosamente trovato morto fuori dal paese. Lia, ripudiata dalla famiglia, si sposò ed ebbe un figlio, Giacinto. Nella sua lettera, il giovane annuncia di essere rimasto orfano e, insoddisfatto del lavoro alla dogana, chiede di poter raggiungere le zie in Sardegna. Le sorelle sono in disaccordo sul da farsi. Efix, invece, spera che l’arrivo del ragazzo riaccenda la speranza della rinascita della famiglia: “Sperare sì, ma non fidarsi anche. Star vigili come le canne, che a ogni soffio di vento si battono l’una all’altra le foglie, come per avvertirsi del pericolo”.
Giacinto arriva nei giorni della Festa del Rimedio ed è accolto dalle zie con sentimenti alterni. Il bel ragazzo desta subito l’attenzione di Grixenda, giovane vicina di casa delle Pintor. Già dai primi giorni, Giacinto inizia a spendere: viene visto giocare a carte, offrire da bere… inoltre, fa una corte serrata a Grixenda, che s’innamora follemente. “Spendeva e non guadagnava: e anche il pozzo più profondo, ad attingervi troppo si secca”. Incuriositi dalla sua apparente ricchezza, il sindaco Don Predu e il Milese, un ricco mercante, lo accolgono nel loro circolo. Efix sospetta dei suoi vizi e gliene parla: Giacinto, allora, confessa d’esser stato licenziato dalla dogana per aver truffato un ufficiale e che, orfano e spaesato, voleva cercarsi un lavoro onesto a Nuoro. Efix gli crede e lo difende dalle accuse dell’intransigente Noemi, la cui durezza nasconde in realtà una forte infatuazione per il nipote. Ester e Ruth, invece, s’indebitano sempre più per amore del nipote. Nell’oziosa quotidianità, Giacinto, ancora disoccupato, svolge piccoli servizi per il Milese, ma continua a perdere soldi al gioco e ricorre ai prestiti di Kallina. Efix parla all’usuraia e scopre che Giacinto ha presentato due cambiali, contraffacendo le firme di Ester. In paese, Giacinto è sparito da ormai tre giorni quando Kallina protesta le cambiali: venutane al corrente, Ruth muore d’infarto. Efix parte in cerca di Giacinto; lo trova a Nuoro, dove vive coi pochi soldi guadagnati col Milese. Efix lo rimprovera per la condotta che sta portando le zie alla rovina, ma Giacinto lo zittisce rivelandogli di conoscere il suo terribile segreto.
Efix, in preda ai rimorsi che riemergono dal passato, torna a Galte dalle Pintor, desiderose che il giovane non si faccia più vedere. Per sfuggire all’usuraia Kallina, Ester e Noemi vendono il poderetto a Don Predu, che s’accolla tutti i loro debiti. Convinto che ciò preluda al matrimonio tra Predu e Noemi, Efix abbandona la casa, deciso a espiare, mendicando, quelle colpe che gravano sulla sua coscienza. “Cuore bisogna avere, null'altro”. Ma il matrimonio tarda ad arrivare, per la riottosità di Noemi che, forse, nasconde qualcosa. E proprio Giacinto, prendendosi le sue responsabilità, potrà indirizzare correttamente la sua vita e quella delle zie, fornendo indirettamente loro l’ultima àncora di salvezza. Efix, fino alla fine, vivrà stoicamente per compiere il suo proposito morale, unico modo per metter finalmente pace nella sua anima tormentata. “La vita passa e noi la lasciamo passare come l'acqua del fiume, e solo quando manca ci accorgiamo che manca.”
L’opera è gradevole sebbene la lettura risulti, talvolta, eccessivamente lenta. Il linguaggio è semplice, a volte essenziale, non sfoggia ricercatezze particolari e, anzi, ingloba alcuni termini dialettali. La Deledda è brava nell’immergere il lettore nella Sardegna d’inizio Novecento, in bilico tra le tradizioni del passato e le innovazioni che stentano a far breccia. Ci tuffiamo così in una Sardegna aspra, immota, caratterizzata da una vita modesta ma genuina, intrisa di temi universali: amore, invidia, lealtà, povertà. Grazia Deledda è attenta nel tratteggiare, con vivida forza narrativa, i caratteri morali e psicologici dei suoi personaggi, regalandoci un classico della letteratura.
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Anch'io ho molto apprezzato questo libro.
Ti segnalo "Quasi Grazia", di M. Fois : un ritratto indimenticabile della scrittrice sarda in tre momenti significativi della sua esistenza.