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Come il pensiero può volare in una prigione
Chi non ha mai sfogliato Le mie prigioni potrebbe pensare a un vecchio testo politico dalla prosa ammuffita e grondante di retorica, buono tutt’al più a chi si occupa di storia patria. Ebbene, nulla di tutto ciò. Certo, il capolavoro di Pellico è scritto in un italiano ottocentesco e la sua ambientazione non è attuale, ma dalle pagine di questo celebre libello emerge soprattutto un grande senso di umanità. Al cuore della trattazione, infatti, non stanno gli ideali politici del rivoluzionario, bensì i sentimenti del prigioniero, i suoi dolori, le sue speranze, il suo attaccamento alla vita.
Nelle Mie prigioni Pellico racconta con stile asciutto e diretto il suo personale incubo iniziato nelle carceri di Milano e Venezia e terminato ai confini dell’Impero Austriaco, in Moravia, nella tetra fortezza dello Spielberg. L’accusa di affiliazione alla Carboneria lo spinge lentamente verso il baratro, mettendolo di fronte a una prova fisica e morale difficilissima. Dopo la condanna a quindici anni di carcere duro, lo scrittore vive con dignitosa rassegnazione e senza rancore un’esistenza ignobile segnata dalla solitudine e tormentata dalle malattie causate dall’ambiente malsano del carcere. Con sforzo enorme tenta di rimanere aggrappato al mondo, nella convinzione che il male inflittogli sia ordinato a un suo giovamento.
Confinato in una terra lontana che non gli appartiene, strappato dall’affetto dei propri cari, costretto in antri freddi, umidi e bui, con una catena al piede, un tavolaccio di legno per letto e un rancio da fame, Pellico può contare unicamente sulla propria immaginativa per non impazzire. Compone, filosofa, poeta e legge avidamente i pochissimi libri che gli vengono concessi. Cerca di imporsi una ferrea disciplina dello spirito e di scacciare dal cuore ogni forma di cinismo, risentimento e odio, comprendendo che finirebbero per peggiorare la sua esistenza.
Alla nuda cronaca degli anni di prigionia, la narrazione interseca un caldo dialogo interiore, un vivido discorso dell’anima dove affiorano ricordi di una vita perduta e maturano confortanti riflessioni sull’uomo e su Dio. La filosofia e la fede sono infatti le fiaccole che Pellico si sforza di tenere accese per impedire alle sue tenebre di parlargli e per nutrire di sostanza le interminabili giornate del prigioniero.
Fortunatamente, a donare un minimo di incoraggiamento e di colore ci sono anche delle presenze umane. La prigione è un mondo parallelo popolato di figure che di tanto in tanto spezzano il duro isolamento del carcerato: sono gli altri prigionieri, i secondini, i medici e chiunque altro per occasione entri in contatto con quel desolante cosmo di reietti e dimenticati. I personaggi che il protagonista incontra nell’arco della sua prigionia restano scolpiti nella mente e sono forse l’immagine più dolce che rimane al termine della lettura. C’è il mutolino, il bimbo senza parola che si affeziona a Pellico e torna a fargli visita davanti alle sbarre della cella di Milano; il povero e sprovveduto Maroncelli, carbonaro e amico di Silvio, protagonista dell’episodio più commovente della storia; l‘ingenua Zanze, figlia quindicenne del custode dei Piombi a Venezia, che rimane colpita dalla sventura dello scrittore e si intrattiene spesso a conversare con lui. Ma più di tutti resta impresso il vecchio caporale Schiller, carceriere di Pellico allo Spielberg, probabilmente la figura più nobile di tutto il racconto. Schiller è pur sempre un anello della catena oppressiva austriaca, ma l’autore lo descrive come un giusto che compatisce l’amaro destino dei prigionieri e fa tutto ciò che è in suo potere per alleviarne il dolore.
Silvio Pellico cominciò a scrivere i propri ricordi di prigionia nel 1831, soltanto dopo la scarcerazione. L’opera uscì a Torino un anno più tardi ed ottenne un successo travolgente, tanto da diventare il libro italiano più letto nell’Ottocento. La censura non poté nulla contro un testo che si dichiarava espressamente non politico e che in effetti non conteneva un solo attacco esplicito nei confronti dell’Austria. Nonostante ciò, come disse il cancelliere Metternich, esso arrecò più danno all’Impero di una battaglia perduta. La descrizione degli eventi infatti porta il lettore a solidarizzare con il prigioniero e a detestare i mandanti di tanti inutili sofferenze. L’atto d’accusa, anche se non espresso, si legge tra le righe, risultando forse ancora più incisivo.
Le mie prigioni costituiscono in definitiva una splendida testimonianza, una lettura edificante a cui sarà utile andare non solo per approfondire una pagina importante della nostra storia nazionale, ma anche per conoscere l’esperienza di un uomo fuori dal comune, trovando nella sua abnegazione e nei suoi valori uno stimolo a superare ostilità e momenti bui.
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Un caro saluto!
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Una bella proposta di lettura, per chi ne avesse soltanto sentito parlare.
Ritengo sia fra quei libri necessari, imperdibili. L'ho anche riletto e l'ho trovato sempre emozionante.