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Come canne al vento...
«Ogni volta che si allontanava lo guardava così, tenero e melanconico, appunto come un uccello che emigra: sentiva di lasciar lassù la parte migliore di se stesso, la forza che dà la solitudine, il distacco dal mondo; e andando su per lo stradone attraverso la brughiera, i giuncheti, i bassi ontani lungo il fiume, gli sembrava di essere un pellegrino, con la piccola bisaccia di lana sulle spalle e un bastone di sambuco in mano, diretto verso un luogo di penitenza: il mondo.» p. 15
Efix è al servizio della famiglia Pintor da molti molti anni, ovvero dai tempi in cui il pater familias era ancora in vita e da prima che Lia, una delle sorelle figlie di questo, riuscisse a scappare per approdare a Civitavecchia luogo dove si era di poi sposata e dal cui matrimonio aveva avuto un figlio, Giacinto. Ormai appartenente ad una nobiltà decaduta che le obbliga a vivere di quel che riescono a ottenere dal poderetto di cui si occupa il fedele servo e sfiancate dall’usura, le tre donne padrone ricevono una lettera da questo sconosciuto nipote di cui a malapena conoscono dell’esistenza. Che fare? Come comportarsi? Ospitarlo? Che sia una buona notizia? Oppure il giovane non farà altro che riportare dolore e scompiglio nella famiglia? Perché dal giorno della partenza di Lia, è come se tutto si fosse cristallizzato in un passato che per quanto sia passato è ancora presente e che per questo è capace di continuare a ferire, a far soffrire. Tra decadenza, dolore, apatia, abbandono, rimuginare, rimorsi, errori. Pertanto quella missiva del giovane continentale non può che rappresentare un ritorno di quei giorni che persistono a non abbandonare queste figure così chiuse, incapaci di accettare e ancora meno perdonare quegli eventi. E ben presto, i fatti che si succederanno, le porteranno a chiedersi se forse questo passato non sia tornato per ripetersi, per ricalcare errori, dolori e angosce che appaiono senza fine come colpe insite nell’essere umano. Lo stesso Efix è vincolato da quei tempi che furono: immolato alle sorti delle sue nobili egli vive custodendo un segreto che lo consuma e lo distrugge perché a sua volta incapace di accettarlo, di ammetterlo, di farvi fronte.
Come dunque non accumunare la venuta del giovane con un rimanifestarsi di quelle colpe mai espiate da parte di tutti i personaggi? In questo contesto Efix è un simbolo, è l’emblema di questa condizione di immobilità, è la colonna portante di quel percorso costruito dall’autrice che passando per l’aspetto prettamente individuale e collettivo interiore, che passando per quegli ambienti mitici e magici che vengono descritti e dove le canne sono emblema della resistenza alla sconfitta e della tempra umana, al dolore, alla sofferenza, e passando ancora per una disamina tra il bene e il male, il giusto e lo sbagliato, si giunge a quella che è la finale e conclusiva morale di un componimento frazionato da aspetti di riflessione e ponderazione. Perché l’uomo è fragile ma al contempo resiste e non si spezza, se non talvolta, bensì si flette e piega, a quello che è il vento dell’esistenza.
A cornice di un contenuto variegato e toccante si affianca una prosa ricca, lirica e ascetica che dona pensieri, anime, silenzi, paesaggi, che semplicemente racconta quella sofferenza dell’io, quella impossibilità di rifuggire a quelli che sono i dolori dell’inconscio umano, anche in punto di morte quando quel dialogo si chiude insieme a quell’uscio che custodisce segreti.
«Efix ramenti, Efix rammenti? Sei andato, sei tornato, sei di nuovo in mezzo a noi come uno della nostra famiglia. Chi si piega e chi si spezza, chi resiste oggi ma si piegherà domani e posdomani si spezzerà. Efix rammenti, Efix rammenti?» p. 210
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