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Non un romanzo di amore
La lettura di "Con gli occhi chiusi" richiede un certo impegno e confesso di essere stato sul punto di abbandonarla. Non è tanto la forma a rendere il romanzo ostico quanto la cupa atmosfera di una civiltà rurale pervasa da estrema durezza. Un mondo contadino che ricorda, senza azzardare riferimenti letterari, da un lato “l'albero degli zoccoli” di Olmi senza la poesia e la religiosità degli umili e dall’altro il “Pinocchio” di Comencini privato però dell’umorismo grottesco e dell’ispirazione fiabesca.
Con gli occhi chiusi non lascia spiragli. La fatica di vivere non risparmia nessuno: dal padrone ai salariati fin giù ai mendicanti che si litigano un tozzo di pane.
In questo contesto si innesca una storia fragile ed autobiografica che vorrebbe essere d'amore. Pietro vive torbidamente una passione per la nipote di un salariato del padre. La ragazza, Ghisola, condotta dai casi della vita e forse anche da una certa qual predisposizione, va in città divenendo amante e mantenuta di un uomo maturo e rimanendo presto in cinta. Quando Pietro la raggiungerà con la sua promessa di amore, lei cercherà di nascondere la gravidanza nella speranza di concludere il buon matrimonio e liberarsi dalla triste e miserevole condizione. Pietro scoprirà l'inganno grazie ad una soffiata. Il suo "amore", assieme al romanzo stesso, avrà brusca conclusione.
Fin qui la storia. Non storia d'amore appunto, perché come acutamente osservato da Debenedetti nella sua critica, Pietro vive una "impotenza psicologica di amare" ed oscilla tra atteggiamenti possessivi e idealizzazioni artificiose che poco hanno a che fare col sentimento.
I personaggi, malgrado, o forse a causa, della natura autobiografica del romanzo, non paiono ben delineati e credibili e risultano psicologicamente acerbi.
Pietro, alter ego dell’autore, è morboso e scostante durante l'adolescenza per poi trasformarsi nell' ingenuo ed inconcludente idealista della seconda parte del romanzo.
Ghisola è anch’essa descritta in modo evanescente a tratti vittima a tratti carnefice.
Il più a fuoco è forse Domenico, padre di Pietro, che ha nella ricerca del profitto e dell'emancipazione sociale il suo coerente mantra personale. Disgustoso, impietoso, avaro, meschino, anaffettivo certo, ma anche un po'patetico nel suo attaccamento al denaro specie quando realizzerà la vanità di tutti i suoi sacrifici nell’accumulare una fortuna che l’erede indegno disperderà.
Del romanzo la cosa migliore mi paiono le delicate descrizioni paesaggistiche nonchè quelle urbane di Siena e Firenze, tratteggiate con sensibile gusto poetico tanto da farmi pensare che la poesia, piuttosto che la narrativa, fosse la vera vocazione di Tozzi.
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