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Morgen früh
A volte il silenzio è una grande forma di rispetto verso qualcosa di più grande di noi.
Per questo avevo deciso di non scrivere nulla su questo libro, su questa lucidissima testimonianza di quell'orrore senza fine che, per quanto ci si possa sforzare di comprendere, non riusciremo mai veramente a capire.
Neanche lontanamente ad immaginare.
Ma poi le parole sono arrivate con prepotenza, non potevo ignorarle.
Anche per rispetto.
Sono troppe le cose che ci mancano per un'adeguata comprensione, troppe...a partire dal senso delle parole.
Ed è esattamente quello su cui vorrei soffermarmi, quello che più mi ha segnato, perché rivoluziona completamente il concetto di "significato".
Noi siamo uomini liberi e siamo abituati ad usare la lingua degli uomini liberi.
Le parole che pronunciamo sono fortemente legate alla nostra condizione.
Pensiamo al concetto di "fame"...
La fame che conosciamo noi è quella legata ad un'abitudine, è quella di chi magari ha saltato un pasto, o addirittura quella autoimposta di chi si mette a dieta.
La fame di chi è libero anche di non mangiare.
Non potremo mai capire la fame di chi aspettava che il vicino di cuccetta morisse, per potergli togliere un misero pezzo di pane dalle mani.
Noi non sappiamo assolutamente che cosa sia...
Pensiamo al "freddo"...
Il freddo di chi stava ore e ore nudo con i piedi nella neve, di chi si ammazzava di fatica sotto la pioggia gelida, con il vento che tagliava in due e sognava un pezzo di stoffa asciutto o un minimo calore che asciugasse, già sapendo di non poterli avere.
Il freddo di chi ha conosciuto "l'inverno dell'anima".
Cosa posso saperne io, di questo freddo, di questo gelo, mentre leggo tutto ciò sotto il mio morbido e caldo piumone?
Come posso permettermi anche solo di scrivere queste righe?
Pensiamo alla "stanchezza"...
Non quella che intendiamo noi, quella che si può spazzare via con qualche buona ora di sonno, no.
Ma quella capace di uccidere, quella che, attraverso il corpo, urlava che era finita, che non ce la si poteva fare più, che il disfacimento era vicino e le forze non sarebbero bastate per superare il prossimo giorno.
Uno dei tanti, tutti uguali.
Pensiamo al "dolore"...
Noi cerchiamo di immaginare qualcosa, qualcosa di spaventoso, di terribile, di insopportabile, ma in realtà si trattava di altro.
Si trattava di qualcosa che dovrebbe avere un altro nome.
Un nome capace di racchiudere l'inimmaginabile.
Ma soprattutto, pensiamo alla "paura"...
Quella che abitava gli occhi di chi sapeva di dover morire...sì perché la paura passa sempre dagli occhi, attraversa il corpo e muore nel cuore.
Quella di chi ha perso completamente l'idea di futuro...tanto che, nel gergo del lager, "mai" si diceva "morgen früh"...ovvero "domani mattina".
Niente di strano, perchè per molti "domani mattina" non sarebbe arrivato mai.
E poi forse la parola più importante: "uomo".
Cos'è un uomo?
Cos'è un uomo a cui viene tolto tutto?
Cos'è un uomo senza i suoi vestiti, le sue scarpe, il cibo, l'acqua...il proprio nome?
Un uomo amputato dei suoi affetti, tutti?
E cosa rimane di un uomo se gli togli anche la dignità?
Se lo privi dei pensieri e della capacità di riconoscere se stesso e gli altri come "uomini"?
Niente. Assolutamente niente.
In fondo io, qui, al sicuro della mia libertà e arrogandomi un diritto che non possiedo, sto parlando di cose che non so.
Ma lui, Primo Levi, le sa bene...ed ha scelto di tramandarcele, ha speso una vita per farci comprendere l'incomprensibile, per narrarci l'immane sofferenza che ha vissuto e far sì che noi non permettessimo più, mai più, un orrore simile.
Il rispetto per lui, per la sua storia e quella di tutti coloro che sono morti e hanno subito tale orrore, passa dalla lettura di questo libro.
Dal silenzio che ne consegue o dalle parole che non possono essere trattenute.
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Un libro che, da testimonianza, ha saputo essere anche alta Letteratura.