Dettagli Recensione
Quando l'azione non è più una soluzione
"La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà. Per adoperare una metafora, la realtà, quando mi annoio, mi ha sempre fatto l’effetto sconcertante che fa una coperta troppo corta, ad un dormiente, in una notte d’inverno: la tira sui piedi e ha freddo al petto, la tira sul petto e ha freddo ai piedi; e così non riesce mai a prender sonno veramente. Oppure, altro paragone, la mia noia rassomiglia all’interruzione frequente e misteriosa della corrente elettrica in una casa: un momento tutto è chiaro ed evidente […]; un momento dopo non c’è più che buio e vuoto. Oppure, terzo paragone, la mia noia potrebbe essere definita una malattia degli oggetti, consistente in un avvizzimento o perdita di vitalità quasi repentina; come a vedere in pochi secondi, per trasformazioni successive e rapidissime, un fiore passare dal boccio all’appassimento e alla polvere."
Secondo Alberto Moravia la noia è la mancanza di rapporto tra l’uomo e le cose, l’incomunicabilità con la realtà circostante e Dino, il protagonista del suo romanzo, ne soffre da quando era bambino.
"Soprattutto quando ero bambino, la noia assumeva forme del tutto oscure a me stesso e agli altri, che io ero incapace di spiegare e che gli altri, nel caso mia madre, attribuivano a disturbi della salute o altre simili cause; […] sopraffatto dal malessere che mi ispirava quello che ho chiamato l’avvizzimento degli oggetti, ossia dall’oscura consapevolezza che tra me e le cose non ci fosse alcun rapporto."
Dino è nato in una famiglia romana ricchissima e nella sua vita ci sono essenzialmente tre cose: sua madre, la pittura e i soldi di famiglia. Ma come tutti i protagonisti delle opere di Alberto Moravia, sta stretto nei suoi panni di ricco borghese romano e allora si traveste, rifiuta il denaro e la villa di sua madre, va a vivere in un appartamento in via Margutta, la via romana dei poeti e degli artisti, indossa vestiti da squattrinato e si rifugia nell’arte della pittura. Presto si rende conto che quel travestimento non significa altro che continuare a tradirsi: Dino deve uscire a tutti i costi dalla sua condizione che pesa come un macigno sulle sue spalle borghesi di nascita. Smette di dipingere, negli ultimi tempi lo aveva fatto per noia, frequenta una ragazza del popolo, una modella di un vecchio pittore defunto, Cecilia, pensando che lei rappresenti in qualche modo la purezza e l’ingenuità del popolo e del proletariato, che badi agli istinti naturali e non alle costrizioni borghesi, che non guardi al denaro o al sesso ma amaramente scopre che anche il popolo ha le stesse “malattie” dei ricchi borghesi. Cecilia ama a modo suo Dino, Cecilia appare e scompare, gli sfugge così come la realtà, le piace l’odore dei soldi che Dino le regala ogni volta dopo il sesso, dove lei si rivela una dominatrice e non una dominata, e in questo Dino, sotto consiglio di Freud, che è onnipresente nell’opera di Moravia, ci leggerà che quella giovane ragazza del popolo è affamata più di quanto potesse pensare, tanto è che si stanca presto di Dino, povero per finta, che cercherà di comprarla fino alla fine riscoprendo il valore dei suoi soldi, della bella villa, della madre assillante. Ormai Cecilia è innamorata di un attraente attore romano che la corteggia animatamente, che le promette belle cose. Magistrale per modernità e integrazione tra le arti, in questo caso tra pittura, cinema e letteratura, è la scena simbolica in cui Cecilia, nuda sul letto, viene ricoperta interamente di soldi da Dino, una sua idea da pittore «scaturita dalla somiglianza del suo atteggiamento con quello di Danae».
È bene tener conto anche della stranezza del sentimento amoroso di Dino nei confronti di Cecilia: continuamente si intuisce una contraddittorietà di fondo in quello che forse è l’amore che prova, ma che non si sa se è amore.
"Capivo infatti che, fino a quando avessi sofferto, non avrei potuto separarmi da Cecilia come tuttora desideravo. E capivo pure che con Cecilia non potevo che annoiarmi e soffrire: finora mi ero annoiato e avevo desiderato, di conseguenza, di lasciarla; adesso soffrivo e sentivo che non avrei potuto lasciarla finché non mi fossi di nuovo annoiato."
Dino sull’orlo del precipizio decide di farla finita, non dovrà più guardare a quello spettacolo amoroso e soprattutto non dovrà più vestire panni che non sono i suoi. Qualcosa però non funziona e quello che doveva essere un suicidio liberatorio, si rivela uno stupido incidente che lo costringerà a pensare ancora e ancora, fino a quando concepisce l’unica via d’uscita dal suo dramma: la contemplazione passiva della vita che scorre poiché l’azione non è una soluzione vincente.
È questa la scappatoia per un uomo che nasce nella borghesia e non ci vuole rimanere, non ha via di scampo, non si può scappare da quella classe.
Dino scopre che il rapporto tra lui e le cose è offuscato dai valori sociali che complicano i comportamenti umani, amplificandone la falsità e l’ambiguità, che la cultura, portatrice di quei valori, è solo un ostacolo alla vera conoscenza delle cose e della realtà, diventa d’intralcio e di conseguenza anche l’intellettuale borghese, che la diffonde e la rappresenta, non gioca più nessun ruolo.
Dino è riuscito paradossalmente laddove non ce l’aveva fatta Michele Ardengo de Gli Indifferenti e forse dove non riuscirà nel 1978 neanche Desideria nonostante La vita interiore sia l’enciclopedia di tutti i casi umani immaginati da Alberto Moravia.
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