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UN VISO GIALLO D’UCCELLO RAPACE
Questo è uno dei suoi primi romanzi di Grazia Deledda, tra i meno conosciuti. Scritto nel 1902, quando la donna è poco più che trentenne, sposata da poco, studiosa di etnologia, scrittrice ancora lontana dalle opere della maturità e dal Premio Nobel. Proprio in quel periodo, in Italia il divorzio è materia di discussione: c’è perfino una proposta di legge, ma è troppo presto, ci vorranno circa settant’anni per intaccare i privilegi della Sacra Rota.
La scrittura ha ancora un sapore acerbo, ma proprio per questo appetibile. In questo romanzo si sentono chiaramente le intenzioni autoriali, che prendono la parola nel dibattito politico di allora e documentano gli studi sul folklore e la tradizione sarda. Le inclinazioni didattiche sono talmente esplicite che non penalizzano la fruizione di una scrittura fresca, dal sapore acerbo ma intenso.
Grazia Deledda eccelle soprattutto nel raccontare per immagini la sua terra, il suo cielo, e il mutare degli umori e delle stagioni. Le sue descrizioni sono più che cinematografiche, non ci consentono soltanto di camminare accanto ai suoi personaggi ma ci sommergono fino a farci sentire gli odori domestici e selvatici, il calore del sole e del vento, il sapore dei maccheroni e del pane.
Anche i personaggi vengono descritti con la stessa passione e la stessa attenzione nei particolari, come se fossero estensioni delle case e delle brughiere: i capelli, i denti, gli abiti, i fianchi, i gesti, il portamento, le espressioni, le parole, il canto, il colore del viso e degli occhi. Così zia Bachisia, la strega, racconta la sua prepotenza con il “suo viso giallo d’uccello rapace”; così la protagonista, Giovanna esprime il suo dolore e la sua timidezza mentre siede “lontana dal fuoco, un po’ curva, con le mani entro le aperture della gonna”.
Leggere questo romanzo significa camminare in una terra che non esiste più, ascoltare parole e suoni ormai lontani e quindi portatori di suggestioni intense. Leggere diventa osservare consuetudini e rituali e superstizioni “da selvaggi idolatri” eppure non così lontani nello spazio e nel tempo. Leggere ci fa sentire che il matrimonio, fino a pochi anni fa, era davvero sacro: vivere nel peccato non era poi così insolito, ma sposarsi più di una volta no, era inaccettabile, era tabù più che peccato.
“Dopo il divorzio” è un romanzo da vivere come un viaggio esotico, che ci offre una scrittura che incanta anche per i suoi termini desueti, per le sue citazioni dialettali, per la sua appartenenza al secolo ormai estinto dal nuovo millennio.
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