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Quel guazzabuglio del cuore umano
I Promessi Sposi, opera capitale del Romanticismo italiano e della letteratura mondiale, furono scritti da Manzoni tra 1821 e 1823 col titolo provvisorio Fermo e Lucia, poi mutato in quello definitivo nelle successive edizioni del 1827 e del 1840. Manzoni sceglie la neonata forma del romanzo, senza precedenti in Italia (se si esclude l’Ortis di Foscolo, ancora lontano dalla forma compiuta del romanzo ottocentesco), in quanto è da lui ritenuta la più adatta al suo scopo, ossia narrare il vero dalla prospettiva dei deboli. A tale intento inadeguato gli si era mostrato il teatro: il romanzo infatti, svincolato da canoni tradizionale in quanto di recente diffusione, gli consentiva una maggiore libertà contenutistica e formale, lasciando all’autore il compito di orchestrare la rappresentazione della realtà. La caratteristica principale del romanzo manzoniano è il suo rapporto con la storia: egli scrive infatti un romanzo storico ambientato nella Milano spagnola del Seicento, che tante analogie presentava con la situazione presente della Lombardia asburgica. Il realismo storico dello scrittore è tale che egli introduce nel soggetto d’invenzione dei personaggi storici reali di cui trova notizia nei documenti, quali la monaca di Monza, il cardinale Borromeo o l’Innominato: ciò conferisce ulteriore verosimiglianza al romanzo. Considerate dunque tali premesse, risulta evidente il valore di un romanzo che nella sua polifonia ci fornisce un dettagliato e politematico ritratto della contemporaneità così abilmente mascherata nella finzione letteraria dell’Anonimo manoscritto secentesco.
Ecco dunque presentarsi sulla scena – perché il romanzo assume a tratti movenze e tonalità vicine a quelle del dramma grazie al suo realismo e alla sua verosimiglianza – una sterminata galleria di personaggi atti a fornire l’immagine del mondo visto dagli umili, a cui lo scrittore si associa. Abbiamo quindi il quadrato sistema dei personaggi: a due oppressi (Renzo e Lucia) e ai loro due aiutanti (fra’ Cristoforo e il cardinale Borromeo) corrispondono due oppressori (don Rodrigo e l’Innominato) e i loro due aiutanti (don Abbondio e la monaca di Monza); agli affetti familiari (Agnese, il cugino di Renzo) corrispondono i rapporti vuoti o imposti dai rapporti di forza (i bravi, conte Attilio, conte zio, Azzecca-garbugli); ai due personaggi ecclesiastici d’estrazione popolare (don Abbondio, fra’ Cristoforo) ne corrispondono due d’estrazione nobiliare (la monaca di Monza e il cardinale Borromeo); alla voce dell’anonimo secentesco corrisponde la voce narrante dell’autore, che interviene di continuo dalla sua prospettiva onnisciente ad orientare l’intendimento dei lettori e a gestire con la sua ironia il ritmo e i fili della narrazione; alla realtà storica corrisponde la sfuggente divina Provvidenza.
Tali studiate contrapposizioni sono funzionali ad evidenziare il messaggio manzoniano, rivolto a molteplici ambiti della sua attualità.
Immediato appare l’intento sociale, da cui il romanzo prende dichiaratamente le mosse. La sua scelta di incentrare l’attenzione sulle classi umili è del tutto rivoluzionaria, dal momento che il loro mondo non era finora stato considerato letterariamente degno se non a scopo caricaturale; il motivo di una simile scelta è evidentemente da ricercare nell’intento di dar voce alle masse, asservite agli individuali poteri locali ed effimeri detenuti da signorotti che si collocavano al di là di una legge troppo facilmente manipolabile e nullificata. Questo si riflette, da un lato, nella piaga economico-sociale della povertà, i cui effetti sono esemplificati nella rivolta del pane in cui Renzo rimane coinvolto o nella denunciata miseria del lazzaretto per gli appestati, e dall’altro nella questione politico-morale della giustizia, il cui ordine naturale viene normalmente sovvertito in nome della paura, come ben mostrano l’infido Azzecca-garbugli e il codardo don Abbondio.
Come far fronte a siffatta situazione? Per Manzoni la risposta appare chiara: l’unica via d’uscita è la fede in Dio. L’autore dunque affida alla Chiesa il compito di guida spirituale vicina agli umili per guidare la società al bene pubblico e gli uomini alla salvezza. Ecco dunque troneggiare le figure del tutto positive dell’irreprensibile e autorevole cardinale Borromeo, incarnazione del Bene giunto a pieno compimento, e del pietoso e attivo fra’ Cristoforo, il cui idealismo improntato a romantico titanismo si scontra ed è costantemente bilanciato dalla fede incrollabile, il che lo porta a perseguire in ogni modo il bene. A loro si oppongono radicalmente don Abbondio e Gertrude, il curato e la monaca che hanno tradito la loro missione spirituale rivelando in ciò tutta la loro umana imperfezione: non sono personaggi privi di una coscienza morale o incapaci di amare, sono invece personaggi in cui la fede non ha ancora sopperito ai limiti della loro umanità, da un lato la paura e l’ideologia del quieto vivere e dall’altro la passione amorosa. Per questo motivo essi sono spesso vittime dell’ironia del narratore autoriale, sebbene Manzoni mostri verso di loro anche pietà e comprensione, rivelando una certa compartecipazione nei confronti del loro animo.
Le vicissitudini dei quattro personaggi centrali evidenziano massimamente lo scontro da Manzoni vissuto in prima persona tra reale ed ideale. L’autore condensa il suo personale ed umanissimo conflitto interiore nelle figure di Renzo e Lucia: Renzo, con le sue contraddizioni, col suo impeto istintivo e la sua fede, col suo senso della giustizia terrena contrapposta a quella divina, appare per molti versi una proiezione della personalità scrittore, che infatti mostra sempre empatia nei suoi confronti, esimendosi da qualsiasi giudizio morale complessivamente negativo; Lucia, con la sua perfezione spirituale e la sua bellezza pura e casta, rappresenta l’ideale a cui Renzo tende con struggente amore al pari di Manzoni nei confronti della fede. La forza dirompente di quest’ultima raggiunge il suo apice nella conversione dell’Innominato, evento in grado di spostare gli equilibri a favore del bene. E non poteva d’altronde che essere lui il più portato alla conversione: egli infatti è sempre stato perfetto nel Male, dunque il passo è per lui certamente più semplice che per il mediocre don Rodrigo, in grado di soffocare la sua non troppo forte coscienza morale, o addirittura per il Griso o il conte Attilio, del tutto privi di senso morale e infinitamente piccoli nella loro mediocrità.
E tuttavia neanche lo scioglimento della vicenda conduce a un finale lieto a 360°: le ultime pagine, infatti, gettano sul futuro congiunto dei protagonisti delle ombre che riconducono il tutto alla dimensione della normalità e della quotidianità. Una quotidianità in cui ha larga parte il male e la sofferenza secondo la visione pessimistica di Manzoni rispetto al destino degli uomini. L’autore nega infatti ogni intervento della Provvidenza nelle faccende umane, a differenza dei personaggi che credono ad essa pur non essendo in grado di coglierne l’essenza, anzi adattandola alle loro mentalità, talvolta in assurdi al limite del grottesco su cui il narratore ironizza bonariamente. In questo Manzoni si dimostra erede del razionalismo del movimento illuminista, da cui tuttavia si distacca per la mancanza di fiducia nel progresso: l’uomo è coinvolto negli eventi del mondo, gli umili si trovano costretti a sottostare alla logica della sopraffazione, gli uomini tutti sono costretti a convivere con la loro realtà storica e la loro natura da adattare a dei principi morali universalmente validi. La modernità dell’autore è dimostrata dal fatto che tali aspetti del suo realismo saranno approfonditi dalle correnti successive, a partire dal Verismo.
Le diverse edizioni differiscono non tanto per lo sviluppo narrativo quanto per la lingua: l’autore infatti rivide la sua opera al fine di avvicinare il registro linguistico al fiorentino contemporaneo d’uso comune, in modo da render l’opera accessibile a un pubblico vasto ed eterogeneo con un tono colloquiale, generalmente sobrio e talora vicino a sprazzi di liricità. La coesistenza della sua voce narrante con quella dell’anonimo secentista è ulteriormente significativa: l’autore, infatti, ironizza sullo stile baroccheggiante tipico della scrittura del Seicento, uno stile finalizzato a nascondere il vuoto contenutistico e lontano dal gusto contemporaneo. Le sue scelte linguistiche per l’edizione quarantana saranno determinanti negli sviluppi della lingua italiana: il Manzoni divenne ben presto un’autorità nel campo, con cui era inevitabile confrontarsi sia stilisticamente sia letterariamente. E’ questo uno dei tanti aspetti della fortuna di un romanzo che ha consegnato alla cultura italiana una tale vastità di situazioni ed espressioni divenute proverbiali o personaggi assurti a veri e propri caratteri tipologici per eccellenza da esser necessariamente annoverato tra i più grandi capolavori della letteratura.