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Mi pende? A me? Il naso?
“Credevo ti guardassi da che parte ti pende”.
Bastano queste semplici parole, pronunciate dalla moglie Dida, a scombinare irrimediabilmente la tranquilla esistenza di Vitangelo Moscarda, siciliano ventottenne residente nella fittizia località di Richieri (probabile alterazione della città di Agrigento, dove Pirandello è nato).
Vitangelo è davanti allo specchio, si tocca il naso a causa di un dolore ad una narice, quando la donna pensa bene di far notare al marito il difetto fisico che mai quest’ultimo aveva ritenuto di possedere.
E non è l’unica imperfezione. Dida rincara la dose con le gambe curve, la strana forma delle sopracciglia e delle orecchie.
Vitangelo ha un’illuminazione. Capisce di non essere per gli altri quello che lui pensa di essere, e di indossare inconsapevolmente una serie innumerevole di maschere tante quante sono le persone che lo conoscono o anche solo lo osservano per un istante, ognuna con impressioni ed opinioni soggettive e, in quanto tali, differenti.
Pirandello, in questo romanzo datato 1926, ha scelto di proseguire una certa tradizione a cavallo tra XIX e XX secolo, propria di autori quali D’Annunzio e Svevo, affidando il ruolo del protagonista alla figura dell’inetto. Un uomo inconcludente, infantile, immaturo.
Vitangelo infatti, per sua stessa ammissione in uno dei numerosi monologhi che caratterizzano lo scritto, afferma di trascorrere una vita tranquilla e agiata grazie all’eredità del padre banchiere, e di non aver mai dovuto prendere alcuna decisione, lasciando che il tempo gli scorresse davanti senza sforzo. È impreparato ad affrontare perfino una rivelazione banale come quella della moglie. E infatti scivola presto nel delirio, facilitato da un animo debole, volubile e confuso dai dubbi che lo attanagliano.
Cerca rifugio nella solitudine, non tanto quella relativa dell’io separato dagli altri (uno) quanto quella assoluta dell’io separato da sé, cioè dalle proprie inevitabili maschere (centomila), per arrivare a vedersi criticamente come un estraneo (nessuno). Una pagina bianca svuotata di pregiudizi e sovrastrutture.
Ma il confine tra liberazione e follia è labile. È impossibile fissare la nostra esistenza, si muove continuamente. Ed è quindi impossibile giungere ad una staticità inconfutabile, oggettiva.
“Uno nessuno e centomila” è un testo importante, capace di affrontare tematiche moderne, universali. Il concetto della relatività delle certezze, della fragilità e dell’insicurezza umana che ha bisogno di forme fisse, stabili. Quello, più banale, relativo al fatto che guardiamo spesso i difetti altrui senza accorgerci dei nostri.
E ancora, la questione dello specchio rivelatore e allo stesso tempo falsificatore. Un elemento ricorrente nella letteratura otto-novecentesca (si pensi, ad esempio, all’importanza dell’oggetto in “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”).
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Molto interessante il tuo commento. Un libro molto 'pirandelliano' !