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Il poema dell'immobilità
“Il Gattopardo”. Volendo commentarlo, ti prende uno strano scoramento: non sai davvero da dove iniziare, se esaltarne lo stile elegantissimo o piuttosto la preziosità del contenuto... Ci pensi, e intanto ti cattura la mente tutt'altra idea: il fatto che si possa diventare un autore immortale anche se si è scritto un unico libro. E' il singolare destino toccato a Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che ultima il volume nel 1956 ma in vita ne vede incredibilmente rifiutata la pubblicazione (ciò accadrà solo nel 1958, un anno dopo la sua morte, ed a cura di un altro grande scrittore: il ferrarese Giorgio Bassani).
Il Gattopardo è l'animalesca figura che troneggia, quale stemma araldico, sulle ville e gli edifici della casata dei Salina, e sulla gran parte di un restante patrimonio che si sta sempre più assottigliando.
Nell'anno del Signore 1860, mentre l'avanzata dei Garibaldini sta turbando il sonno del re e della nobiltà meridionale, il Gattopardo è più d'ogni altro il principe Fabrizio di Salina: un uomo monumentale, forte come un albero secolare, padre e padrone, di uno stile che può possedere solo l'ultimo discendente di una genealogia nobiliare persa nel tempo. Ma tutto questo non tocca la sua capacità di vedere ciò che è desolatamente evidente: la nobiltà sta morendo, e la borghesia (ceto di grossolana avidità, per i suoi gusti) sta venendo a prenderne il posto.
Il trasferimento precauzionale di tutta la famiglia da Palermo alle residenze di Donnafugata diventa, per il principe, un'insperata occasione: la rituale accoglienza riservata dal paese al loro arrivo, l'omaggio personalmente portato da don Calogero Sedara (il rozzo signorotto che, con la sua volgare spregiudicatezza, sta diventando padrone del paese), l'apparizione della sua bellissima figlia Angelica nella villa dei Salina, l'impressione che ella suscita nel giovane Tancredi (il nipote prediletto del principe, tanto da preferirlo persino a suo figlio Francesco Paolo), l'innamoramento che nasce tra i due giovani, tutto converge nella lettera che Tancredi – nel frattempo aggregatosi alle spedizioni garibaldine – invierà allo “zione” perché possa farsi latore della proposta di matrimonio all'avvenente figlia dei Sedara.
Una proposta nella quale don Fabrizio intravede il mezzo più indicato per celebrare una sorta di “compromesso storico”: far sì che l'unione con la classe sociale che sta diventando motore di sconvolgimenti epocali possa capovolgere il destino di una nobiltà avviata ad estinguersi, e donarle vigore nuovo. O almeno così sembra a chi è rifugiato, quasi segregato, in dimore ancora sfarzose, sebbene nei luccichii di quello sfarzo si rifletta un immobilità totale, inevitabile preludio alla fine.
“Il Gattopardo” è un capolavoro di forma e contenuti. Lo stile con cui è scritto non è esattamente tra quelli oggi in voga: ma la misura, la ricercatezza, la “pulizia”, ne fanno qualcosa da trattare con un rispetto assoluto, anche tra i classici. E' un moderno poema. Degno di stare in uno di quegli speciali scaffali che il bibliofilo allestisce sempre da qualche parte nella libreria di casa. Accanto ad opere come l'Odissea, o la Divina Commedia.
E' una vicenda “speciale”... o quantomeno raccontata in modo speciale: la vicenda della nascente Italia vista dalla parte dei “perdenti”, di una stirpe di sangue blu che sta decolorandosi nella polvere dei tempi. E' altissima letteratura, libro di storia, modello di stile, filosofia della condizione umana; racconto della Sicilia e dei siciliani.
Persino la parentesi su padre Pirrone, il fidato confessore dei Salina, vuol dirci qualcosa di preciso... prima di chiudere con il commiato del principe e la scomparsa di una gloriosa casata in uno sconfortante anonimato. Come è giusto che sia, sembra dire, sornione, l'autore.
“Noi fummo i gattopardi, quelli che verranno sono gli sciacalletti e le iene. E tutti quanti, gattopardi sciacalletti e iene continueremo a crederci il sale della Terra.”
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Commenti
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Veramente si presta ad una molteplicità di letture: il rispecchiamento storico e socio-economico, la finissima analisi psicologica-esistenziale, il simbolismo presente lungo la narrazione. A me è pure piaciuta l'ultima parte, dove i giovani sono ormai diventati vecchi, col fallimento di una generazione e la crisi definitiva dell'aristocrazia.
Ma perché l'accostamento con “La metamorfosi” di Kafka?
A Ferruccio:
non so perché dici che ti mancò la capacità o la possibilità di apprezzare questo libro. L'unico scoglio, a mio parere, potrebbe essere uno stile un po' particolare, ma guardando a come curi la scrittura dei tuoi post non penso che questo per te possa rappresentare un problema. Comunque ho scoperto il libro pochi anni fa, e questa, se non vado errato, dovrebbe essere già la terza volta che lo leggo.
Ad Alessandro:
il film di Visconti mi manca (la copertina dell'edizione presentata da Qlibri, peraltro, lo richiama)... Dovrò presto porre rimedio.
A Cristina:
inutile aggiungere che il libro non è affatto mediocre.
Quanto all'analogia con Kafka, confesso che per la prima volta a margine di una mia recensione ho gettato lì un'esca, per vedere chi ci avrebbe fatto caso.
Nel Gattopardo, come nella Metamorfosi, c'è un caratteristica che mi è piaciuta moltissimo (devo dire che in Kafka è ancor più simbolica e, a mio parere, assolutamente geniale): al capitolo con la morte del protagonista ne segue un ultimo che svela, a distanza di tempo, le ripercussioni di questa morte sugli sviluppi familiari. In entrambi i casi citati sono, per un motivo o per l'altro, quasi nulle. Dunque la storia prosegue, ma solo per il lasso di tempo utile a stimolare nel lettore una certa riflessione. Il trait d'union di queste due storie completamente diverse è tutto lì.
Complimenti per lo spirito di osservazione!
Ferruccio
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Ferruccio