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Il vero amico è come un altro te stesso
Quando Cicerone scrive quest'opera, si trova in una difficoltosa fase della sua vita, precipitato in un vortice di implicazioni politiche in cui molto forte è il bisogno di legami autentici, pochi e rari come quello che lega l'autore al dedicatario dell’opera, il suo fedele amico Tito Pomponio Attico.
Si tratta di un dialogo: morto il suo amico Scipione Emiliano, Gaio Lelio discorre coi generi Fannio e Scevola sul valore dell’amicizia, tessendo un appassionato elogio di tale legame in quello che viene configurandosi più come un monologo sporadicamente intervallato dagli ammirati interlocutori. Inizialmente Lelio rievoca la figura dell’amico, celebrato per la sua encomiabile virtù, la quale viene quindi elogiata e posta a fondamento della reale amicizia, che secondo Lelio può sussistere solo tra persone virtuose. Gran parte del dialogo è dunque dedicata alla definizione di tale valore, che viene a costituire l’elemento naturale che innesca un’amicizia, contrariamente a quanti ritengono che essa sorga dall’indigenza, dalla debolezza o dalla manchevolezza. Si tratta di una veemente critica alla filosofia ellenistica, in particolare all’epicureismo e, a tratti, stoicismo e cinismo, che secondo Lelio ridimensionano l’amicizia riconducendone le origini a finalità utilitaristiche. La virtus per i Romani è un ideale meramente pratico: ne abbiamo conferma dall’insistere di Lelio sull’importanza delle idee politiche in un rapporto tra due persone, che ne risulta ampiamente influenzato (come d’altronde Cicerone aveva avuto ben modo di apprendere nel corso della sua vita). Tuttavia, sebbene la politica informi indubbiamente la vita sociale pubblica e privata, nel suo discorso Lelio porta un rilevante elemento di novità: viene infatti altresì svolta un’indagine etica concernente le basi del legame di amicitia, etimologicamente affine all’amor e che la cultura romana indiscutibilmente legava al sostegno politico, riadattando l’ideale greco della filantropia. E’ per questo che tale rapporto può instaurarsi anche tra membri di ceti sociali differenti, in quanto elemento di unione sono virtus e probitas, requisiti imprescindibili per un’amicizia eterna in quanto non soggetti a mutamento come le vicende e tendenze umane. “Ma poiché le cose umane sono fragili e caduche, si deve sempre cercare qualcuno da amare e che ci ami; tolti infatti l’affetto e la simpatia ogni gioia è tolta alla vita”: in modi simili l’amicizia viene pertanto a più riprese esaltata come uno dei più grandi beni della vita umana, pur recando con sé quelle sofferenze e inquietudini che gli stoici volevano respingere. Ma respingere l’amicizia implica abbracciare la solitudine, la condizione più contraria alla natura e all’animo dell’uomo, che in essa smarrirebbe il senso del vivere. Riprendendo il filosofo pitagorico Archita, Lelio afferma che “se qualcuno fosse salito al cielo e avesse contemplato la struttura del mondo e la bellezza degli astri, quella contemplazione non gli avrebbe dato nessun piacere; mentre glielo avrebbe dato grandissimo, s’egli avesse avuto qualcuno a cui raccontare la cosa.” Il vero piacere risiede dunque nella condivisione, in quanto la rettitudine conduce a legarsi tra loro uomini in cerca di stessi ideali, tanto da affermare che “Chi guarda un vero amico, in realtà, è come se si guardasse in uno specchio.”
Quest’opera è comunemente ritenuta un dialogo filosofico, per quanto sia questa una definizione impropria e, in un certo senso, limitativa. Infatti se la si dovesse giudicare solo da un punto di vista filosofico, ne deriverebbe un forte ridimensionamento del suo reale messaggio, per via dell’indubbiamente superficiale (pressoché inesistente) scavo psicologico del sentimento: ben nota è infatti la scarsa inclinazione speculativa dei Romani, che da sempre prediligono la prassi alla teoria, cosicché paragonare un’opera di Cicerone alla forma di scrittura prediletta da Platone risulterebbe notevolmente sfavorevole all’oratore latino. D’altro canto, nelle parole stesse di Lelio, forte risuona la critica ai docti, ossia i filosofi greci.
Risulta invece indubbiamente più efficace, ai fini della valutazione dell’opera, considerarla un semplice trattato, un’orazione scritta di argomento morale in cui confluiscono la tradizione etico-filosofica del pensiero greco e i valori-base della società romana. Cicerone difatti non analizza l’amicitia secondo categorie di pensiero, ma ne stabilisce i presupposti pratici, esemplificando nelle parole di Lelio la virtus, la probitas e tutti i principi cardine dell’etica romana, lontana dagli ideali speculativi e metafisici basilari nelle filosofia greca. Cicerone non è filosofo, è un uomo politico in difficoltà che dà voce al proprio pensiero in un appassionato elogio dell’amicizia, considerata dunque non nella sua sostanzialità emotiva ma nella sua praticità quotidiana, il che non esclude uno sguardo sull’uomo. Inoltre, il tono colloquiale favorisce un linguaggio semplice in una prosa rapida e fluente, lontana dall’astrattezza dell’aulico e del solenne che forse un filosofo greco avrebbe, invece, prediletto.
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