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Quando la morte viene invocata
La letteratura sull’olocausto è vastissima; e io dico: per fortuna. Nel senso che non esiste altra forma di umana consolazione che poter testimoniare e raccontare ciò che appare inconcepibile e difficilmente descrivibile. L’impulso che spinge Primo Levi a scrivere questo libro-verità, nasce, appunto, dal bisogno di narrare e far conoscere l’inferno vissuto in terra nel campo di sterminio di Auschwitz.
L’autore vive una normale vita di studente fino al 1938, anno delle famigerate leggi razziali, per poi continuare gli studi e laurearsi in Chimica. Viene quindi deportato nel febbraio 1944 nel lager di Auschwitz e rimane per un anno fino alla liberazione da parte dei reparti russi; egli condivide insieme agli altri deportati le atroci sofferenze, e gli atti di inumanità perpetrati costantemente dai suoi aguzzini. La morte è sempre presente e pronta a prevaricare in qualsivoglia circostanza, per decisioni arbitrarie, per pura coincidenza.
Primo Levi sa benissimo di essere stato “fortunato” per quell’internamento che avviene in un periodo in cui, a causa della carenza di manodopera, i nazisti avevano deciso di allungare la vita di alcuni deportati per poterli sfruttare nel lavoro; infatti, l’essere un chimico gli consente di venir utilizzato nella fabbrica di gomma interna al lager. In tale orrendo contesto, di annichilimento dell’anima e di ogni forma di pietà umana, nasce e si consolida in Levi la brama e l’anelito in una letteratura di testimonianza da parte di chi è sopravvissuto che consiste non solo nel narrare, ma, principalmente, di essere ascoltato e creduto in quanto tutto ciò che ha vissuto si spinge al di là della comprensione umana.
Quindi un libro-verità sconvolgente, agghiacciante, terrificante, da leggere per non dimenticare quello che l’essere umano è riuscito a commettere e a subire.