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Il genio letterario ed i suoi tormenti
“Quante volte, nell’insonnia, mentre il marito e maestro le dormiva placido accanto, ella non s’era veduta assaltare nel silenzio da uno strano terrore improvviso, che le mozzava il respiro e le faceva battere in tumulto il cuore! Lucidissimamente allora la compagine dell’esistenza quotidiana, sospesa nella notte e nel vuoto della sua anima, priva di senso, priva di scopo, le si squarciava per lasciarle intravedere in un attimo una realtà ben diversa, orrida nella sua crudezza impassibile e misteriosa, in cui tutte le fittizie relazioni consuete di sentimenti e d’immagini si scindevano e si disgregavano”. A vivere questa situazione angosciosa, fatta di risvegli notturni e di vere e proprie crisi d’identità è Silvia Roncella, ventiquattrenne tarantina dal passato segnato dalla prematura morte della pia madre ed intorno alla cui vicenda si dipana la storia di questo scritto, a metà tra romanzo e teatro.
Ella è una giovane donna che anela alla perfezione familiare: vorrebbe una casa fatta di calore del focolare e continuamente invasa dallo squisito profumo delle torte fatte dalle mani sante di un’altrettanto perfetta casalinga che aspetta suo marito, dedita, dunque, al proprio uomo, alla loro dimora e al timor di Dio, un po’ come tutte le sue amiche maritate. Tuttavia Silvia sa, in cuor suo, che, pur sforzandosi, non riuscirà mai ed emulare questi angeli in grembiule, perché in lei vive quello che lo zio romano definisce “il demonietto” che chiede sempre più attenzione.
Il demonietto, pur represso, si trasforma in “demoniaccio” ed ella, per non imbattere in quelle angosciose crisi esistenziali che la fanno piombare in una sofferenza prostrante, deve per forza farlo parlare e dargli spazio: esso è il fuoco dell’arte letteraria, nonché la necessità di far vivere il proprio universo immaginifico servendosi di un calamaio e di un foglio di carta.
Così, timorosa e titubante dapprima e successivamente immersa in questo delirio fatto di immagini e personaggi che diventano parti della sua mente, Silvia dà alla luce il suo primo figlio: il romanzo La casa dei nani, che è salutato dalla repubblica dei letterati con tale interesse dal salpare anche oltremare.
Il successo arriva nella vita della donna in modo inaspettato: ella, infatti, non aveva fatto altro che scrivere per sé, per dare pace a quello spirito ribelle che dimorava in lei sin dalla tenera età, ma qualcuno a lei vicina, il devoto marito Giustino Poggiolo, fiuta la possibilità di far soldi se trasforma l’arte nascosta della moglie in un’attività a tempo pieno.
Il Poggiolo è il suo marito cui Pirandello si riferisce nel primo titolo attribuito a questo romanzo pubblicato in prima battuta nel 1911 a Firenze: suo marito perché Giustino, piemontese di umili origini, non riesce a distaccarsi dalla figura di burocrate e bravo archivista che appare al lettore all’esordio dello scritto. In lui non compare mai un gesto d’amore, o semplicemente di tenerezza, nei confronti della moglie dolce e dimessa, ma si coglie solo un’incessante ed ossessiva bramosia di denaro. Una ricchezza che egli insegue diventando il suo manager, scimmiottando le movenze del regista teatrale quando viene messa in mostra la seconda creatura letteraria della sua dama, La nuova colonia. E mentre in scena la protagonista del dramma, Spera, abbraccia in un amplesso mortale il proprio figlio per non lasciarselo strappare, contemporaneamente a casa Silvia lotta per mettere al mondo il suo terzo figlio, frutto non del proprio intelletto, ma delle proprio viscere. Un bambino non nato dall’amore, una creatura quasi rinnegata dal padre, che definiva lo stato interessante della moglie come un incomodo, una malattia e non il preludio di una vita nuova e più completa.
E così dramma e realtà si uniscono indissolubilmente: in cosa si discostano Silvia, mamma che perde il proprio bambino poco dopo la sua nascita, e Spera, tragica eroina da lei creata approdata nelle coste ioniche per unirsi ad un uomo che prima dice di amarla e poi l’abbandona?
Pur assumendo la veste del romanzo, questo scritto si inscrive alla perfezione nel linguaggio pirandelliano che maschera la realtà e spariglia le carte facendo diventare, ad un tempo, reale dei personaggi immaginari ed insieme astrattizzando esseri umani veri.
La sua penna è brillante, capace di descrivere con grande effetto le caratteristiche di ciascuna figura utilizzando sapientemente metafore tratte dal mondo naturale: così la bramosia di successo di Giustino, suo marito per l’appunto, è paragonata ad un incendio che dapprima nasce come un fuocherello appena accennato, ma che successivamente, grazie ad un alito di vento ed alle foglie secche da esso trasportate, si trasforma in vivida fiamma.
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