Dettagli Recensione
Da leggere, comunque
Opera giovanile e preverista dello scrittore siciliano, riemersa dai depositi della letteratura minore grazie alla versione cinematografica di Franco Zeffirelli, questo breve romanzo epistolare merita comunque che gli si dedichino un paio d’ore di lettura. O più, a seconda della pazienza del lettore e del suo grado di tolleranza rispetto a certe scivolate nel melodramma.
In questo romanzo che l’autore scrisse a Firenze nel 1865 si avverte ancora un attardarsi del romanticismo più sentimentale, ma già si fanno strada le istanze che caratterizzeranno gli anni milanesi, quelli scapigliati per intenderci, nella denuncia delle convenzioni e delle ipocrisie borghesi, nello scandalo e nell’intonazione morbosa che acquista l’evoluzione di una passione che si fa assoluta, fino ad avere la meglio sui timori religiosi e a degenerare in follia. Oppure possiamo osservare il farsi del progetto narrativo che porterà nei Malavoglia all’ “eclissi dell’autore” dietro il personaggio nell’assoluta prevalenza del punto di vista della protagonista, che è anche l’io narrante attraverso le lettere che ella invia all’amica Marianna, sua compagna di prigionia nel monastero di Catania da cui l’epidemia di colera che ha colpito la città l’ha brevemente e illusoriamente emancipata. In nome di questa professione di impersonalità, Verga non esprime valutazioni morali sulla peraltro innocente passione amorosa che induce Maria a desiderare di non essere suora, senza che questo desiderio osi trasformarsi in ribellione, ma solo in un martirio della coscienza di cui ella sarà l’unica vittima. Ben diverso dal giudizio di aperta riprovazione che Manzoni aveva lasciato trasparire nelle famosissime pagine dedicate alla “sventurata” che rispose alle lusinghe di un amore in verità ben più colpevole!
Neppure però dobbiamo aspettarci una qualche forma di denuncia di un malcostume o un proposito di rivendicazione dei diritti di genere: per la sventurata Maria nessuna alternativa è possibile tra l’obbedienza ad un voto voluto da altri se non l’esecrazione sociale conseguente ad una impensabile trasgressione. Di qui la nevrosi e la morte come unica via di scampo. Il mondo visto con gli occhi di Verga è un mondo plumbeo, su cui pesa la cappa delle leggi, più vincolanti di quelle scritte, delle consuetudini sociali, a loro volta imprescindibili da quelle del profitto (anche la felicità in amore è legata al conto in banca e il premio della felicità familiare è riservato solo a quelle che dispongono di una dote adeguata).
Eppure uno spiraglio di luce ancora c’è, ancora si respira aria buona in questo romanzo, ed è dove le leggi e i vincoli della buona società non contano, in quel capanno del castaldo dove la miseria consente ancora una vita familiare fondata su affetti veri: è il mito del “buon villano”, destinato a tramontare anch’esso quando ‘Ntoni Malavoglia se ne andrà per il mondo a cercar fortuna.
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Una recensione profonda ed ancorata al pensiero verghiano.
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