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La monaca che ama, ma non pecca
“Se sapessi, Marianna, se sapessi… il peccataccio che ho fatto!”
Maria, la giovane protagonista di questo accorato epistolario, scrive queste parole alla sua amica più fortunata, a cui la famiglia, e più ancora Dio, ha concesso di poter vivere al di fuori della vita claustrale con il proprio amore.
Maria, una piccola anima predestinata alla clausura, confessa di aver commesso un peccato abominevole: aver danzato con Nino, quel ragazzo che sposerà la sorella capricciosa ed a cui tutto è concesso, ma che, mentre appoggiava la sua mano delicatamente sulla sua schiena per sostenerla durante il ballo, ha trasformato la sua pelle diafana, intonsa ed innocente in una congerie di sentimenti mai provati. La vita, con le sue emozioni primarie fatte di desiderio, appagamento o semplicemente di voglia di affetto, si è prepotentemente appropriata del cuore di questa dolce fanciulla.
E questo passaggio dalla clausura, non tanto fisica quanto di emozioni, alla libertà del cuore, che si anima di emozioni forti che vanno dal riso, alla felicità al pianto disperato, è sapientemente utilizzato da Verga anche nel linguaggio, per cui, dalle prime lettere lineari e serene in cui si indugia a descrivere i pittoreschi luoghi siculi che la protagonisti dopo anni rivede, si passa gradualmente ad uno stile accorato, a delle parole incalzanti che trasudano angoscia in un climax ascendente, indicativo del suo parossismo emotivo, che si traduce in una serie di parole, e poi di fonemi senza senso compiuto, aggrovigliate e dal significato turpe.
La vicenda è nota: questo libricino che si legge nell’arco di un pomeriggio riprende il topos classico della monacatura forzatura: basti pensare al famosissimo esempio della Gertrude manzionana, ma Verga, con vena realistica, ribalta il punto di vista del lettore nei confronti della suora.
Se, infatti, Gertrude da vittima si trasforma in carnefice rinnegando il voto di castità fino a spingersi all’odioso crimine dell’omicidio pur di conservare la propria infedeltà a Dio, Maria nasce, cresce e muore da vittima. In questo senso il proemio di questa operetta che si apre con la figura metaforica della capinera è indicativo dell’obiettivo perseguito dall’autore: mettere a confronto la realtà del vincente nella storia dell’uomo, personificato nell’amica Marianna che ascolta da lontano il pianto disperato della poveretta richiusa, e quella del vinto, che è evidentemente Maria.
Non si può provare indifferenza per questa creatura, che ha conosciuto l’amore, ma non l’ha potuto vivere!
Lo consiglio a tutti.
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