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Tre vite per una felicità
Se non ci impressionano i paradossi temporali, allora tocca ammettere che Mattia Pascal ha già la risposta a una “spaventosa” domanda che Milan Kundera, nel suo libro più famoso, porrà molti decenni dopo: “Che valore ha la vita dell'uomo, se la prima prova è già la vita stessa?”.
Perché Mattia Pascal di vite ne vive addirittura tre!
La prima inizia con un'infanzia e un'adolescenza agiate, per merito delle fortune accumulate dal padre. Ma prosegue con una giovinezza difficile (in quanto, morto suo padre, quelle fortune vengono metodicamente sottratte da un amministratore dei beni di famiglia avido e infedele) e si conclude con un matrimonio per certi versi casuale e sicuramente sfortunato, che vedrà anche la morte delle due gemelle avute con la moglie Romilda.
E' a questo punto – in virtù di una casualità che a volte la vita sa giocare – che Mattia Pascal decide di approfittare di una convergenza di eventi imprevisti, e diventa tutt'altra persona, il signor Adriano Meis... mentre la memoria del buon bibliotecario Pascal viene seppellita in un misurato funerale di paese, nelle spoglie di altra persona mai identificata.
La seconda vita di Mattia inizia ai tavoli del casinò di Montecarlo, e prosegue nella casa delle famiglie Paleari-Papiano, dove troverà asilo (dietro pagamento di pigione, s'intende). In questa casa gira una serie di personaggi – a volte quasi macchiette – tra cui la tremebonda e delicata Adriana, una ragazza per bene che deve sopportare dabbenaggine (del padre, Anselmo Paleari) e angherie (dello zio, Terenzio Papiano). A tener testa a quest'ultimo, uomo di melliflua insidiosità, si parerà proprio Adriano Meis, scopertosi imprudentemente innamorato della fragile bellezza di Adriana, e tuttavia necessitato a fare i conti con il suo più grande limite: quello di essere una persona mai nata, senza una storia alle spalle. Saranno un furto e un invito a duello a far vacillare definitivamente la speranza di Mattia di costruirsi una nuova vita, e a far “precipitare” in un fiume quel che resta della breve esistenza di Meis.
Così, in una terza esistenza originata da rabbia e voglia di regolare i conti, risorge Mattia Pascal, stavolta determinato ad essere se stesso, sia nel registro ammuffito dell'ufficio anagrafe che nelle proprie intime aspirazioni, sino allora deluse.
La grandezza di questo romanzo – magari non il migliore, ma di sicuro il più noto di Luigi Pirandello – è in una mirabile fusione.
Da una parte, la bellezza di uno stile leggiadro nel suo essere (solo in apparenza) colloquiale, che fa della lettura di questo libro un piacere purissimo. Uno stile che, dalle pagine iniziali, è la prima cosa che si percepisce, come sia un cerimoniale di accoglienza per il lettore.
Dall'altra, il racconto della condizione umana, della consapevolezza del suo significato relativo (“Noi anche oggi crediamo che la luna non stia per altro nel cielo, che per farci lume di notte, come il sole di giorno, e le stelle per offrirci un magnifico spettacolo. Sicuro. E dimentichiamo spesso e volentieri di essere atomi infinitesimali per rispettarci e ammirarci a vicenda, e siamo capaci di azzuffarci per un pezzettino di terra o di dolerci di certe cose, che, ove fossimo veramente compenetrati di quello che siamo, dovrebbero parerci miserie incalcolabili“). Ma, nonostante tutto, anche del disperato tentativo di sfuggire alle leggi che regolano l'esistenza.
A volergli trovare un difetto, il libro sembra avere una flessione stilistica nella parte centrale, ma il perché è facile da rintracciare: il Mattia che riesce cinicamente a ironizzare sulle sue disgrazie senza via d'uscita, non può invece farlo quando quella via intravede. Non si può ridere senza ritegno della propria speranza. Il racconto di come essa naufraghi, allora, rende il tutto più pesante, e maledettamente incompiuto.
Ah, dimenticavamo Kundera e la sua perentoria affermazione...
Potrebbe avere ragione e torto insieme, a seconda di come si interpreti l'ammonimento di don Eligio Pellegrinotto (il prete presso il quale Mattia Pascal troverà, alla fine, rifugio): “Fuori dalla legge e fuori di quelle particolarità, liete o tristi che sieno, per cui noi siamo noi, caro signor Pascal, non è possibile vivere”.
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Commenti
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In effetti, Cristina, mi sembra che il tuo paragone calzi bene... Il personaggio di Pirandello non ha certo l'aura del vincente, e tuttavia fa domandare se non sia meglio assecondare, anziché contrastare, il proprio destino (d'altronde è ciò che diceva, in un contesto diverso e per altri fini, anche Machiavelli).
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