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Mastro don Gesualdo
 
Mastro don Gesualdo 2014-01-31 15:14:20 Renzo Montagnoli
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    31 Gennaio, 2014
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La roba, nient’altro che la roba

Secondo romanzo del Ciclo dei Vinti, Mastro Don Gesualdo, pubblicato nel 1889, è senz’altro una delle opere più conosciute fra quelle scritte da Giovanni Verga e, a mio parere, è la sua migliore. Il maestro del verismo ha qui raggiunto infatti una perfezione stilistica e di analisi raramente riscontrabile, delineando la storia di un uomo che si è fatto da sé, che con il duro e costante lavoro ha raggiunto una invidiabile posizione di agiatezza che è il simbolo del suo successo. Ma l’essere riuscito ad arrivare a un traguardo insperato comporta solo amarezze, con il suo gruppo familiare che pretende sempre di più e che è avido delle sue ricchezze e con i nobili, casta già all’epoca in decadenza, che si ostinano, chiusi a riccio nei loro tramontanti privilegi, a considerarlo solo un parvenu, a trattarlo con distacco, se non addirittura a disprezzarlo ostentatamente.
Da muratore a imprenditore, a proprietario terriero, é chiuso in una solitudine e in una infelicità che nemmeno il matrimonio con una nobildonna (auspicato da lui come simbolo ufficiale dell’abbandono del vecchio ceto miserevole) potrà sanare. Non amato dalla moglie, né dai familiari, spesso malvisto addirittura, non gli resterà che attaccarsi alle cose conquistate che per lui rappresentano le fatiche di una vita di massacrante lavoro e il riscontro positivo di questi sforzi. Per quanto il contesto storico sia segnato dal progressivo evolversi di una nuova classe sociale (la borghesia) di cui Mastro Don Gesualdo è un chiaro esempio, dal perpetuarsi dell’immobilità del ceto più povero, quello dei carusi, dei contadini a giornata, degli ancora pochi operai (almeno in Sicilia) e dalla progressiva inevitabile decadenza della nobiltà, ancorata a una visione arcaica dell’esistenza e incapace di comprendere i nuovi tempi, il romanzo non ha solo una valenza riferita a un particolare e determinato periodo temporale (la prima metà del XIX secolo), ma assume caratteristiche di universalità ove si tenga conto delle seguenti considerazioni:
1) Il protagonista fa suo il modus operandi del capitalista, uguale ancor oggi come più di un secolo fa, con quella ricerca non solo della ricchezza, ma del senso di potere che da essa deriva;
2) L’invidia e l’avidità sono proprie degli esseri umani, e ciò fin dalla comparsa degli stessi sul pianeta; le ricchezze di altri sono bramate, sono opportunità di cui avvalersi cercando di impossessarsene;
3) La storia è frutto di una continua evoluzione temporale ed è impossibile fermare i fenomeni che si vanno affermando; così all’epoca è la nobiltà che sta scomparendo, una nobiltà derivante da antichi privilegi messi in discussione non tanto da una rivincita dei plebei, quanto piuttosto dalla capacità e dallo spirito di iniziativa che sono propri della borghesia.
L’aver raggiunto traguardi impensabili, l’aver accumulato fortune non salva però l’individuo dal giudizio dei suoi simili, mai positivo, e in effetti quel Mastro e quel Don attribuiti a Gesualdo Motta non sono frutto di ammirazione e di rispetto, bensì vengono a comporre un nomignolo spregiativo, perché Mastro normalmente viene attribuito a chi dirige un gruppo di lavoro di muratori e Don è un epiteto riservato ai nobili e ai proprietari delle terre. Presi singolarmente questi termini non sono sinonimo di disprezzo, ma messi insieme evidenziano la natura del personaggio, la sua modesta provenienza e il traguardo a cui cerca di giungere. Involontariamente, con questi titoli si è finito con l’evidenziare le caratteristiche dei componenti della nuova borghesia, tesi a sollevarsi dall’eterna indigenza per giungere nell’empireo della nobiltà, di cui però non faranno mai parte, anche imparentandosi con essa.
Gesualdo Motta è un uomo che vive solo in funzione dei suoi interessi, trascurando moglie e figlia per coltivarli, con un attaccamento maniacale alla roba, a quanto da lui conquistato, tanto da impedirgli di condurre una vita normale tesa alla serenità e a quel poco di felicità che può riservare. Il suo ritratto è impietoso, così come anche la sua fine che lo vedrà soccombere a un male incurabile, solo come un cane senza padrone, lasciando indifese le sue ricchezze, di cui altri finiranno con il beneficiare (il genero Duca di Leyra).
Intorno a lui ruotano tanti personaggi, descritti mirabilmente: la moglie Bianca Trao, nobile, una donna sostanzialmente buona che non ama il marito, Isabella Motta, figlia solo di nome di Gesualdo Motta, in quanto frutto di una relazione della madre con un nobile scapestrato, e che, benché unica erede, detesta il padre a tal punto di farsi chiamare con il cognome della madre, i parenti acquisiti Trao, che della conservazione della loro posizione nobiliare e delle loro ricchezze hanno fatto la loro unica ragione di vita, la famiglia di Gesualdo, che ne ha invidia e che di sicuro non lo ama.
Non vado oltre, perché di personaggi ce ne sono veramente tanti, ma nessuno è superfluo, anzi sono collocati esattamente nella trama come contorno indispensabile per giungere a definire il protagonista, la vicenda, il contesto storico. Mi è impossibile però non citare i dipendenti di Gesualdo, gran lavoratori e che probabilmente sono gli unici a capirlo per le loro origini e perché sono cresciuti con le sue iniziative.
Mastro Don Gesualdo è la storia di un uomo che volle farsi re, odiato dal suo ceto di origine, che lo considera in pratica un traditore, e detestato dalla nobiltà per il suo sangue non blu e che finisce per considerarlo un vero e proprio intruso. Né carne né pesce, scivolerà piano piano in un’angoscia esistenziale, in un attaccamento morboso agli averi, con un possesso che è fine a se stesso. Soprattutto gli mancherà la possibilità di parlare in modo da capire ed essere capito e la sua solitudine è l’amaro risvolto di un’esistenza in cui non c’è spazio né per i sentimenti, né per la pietà, un mondo chiuso da cui gli altri sono esclusi, considerati di fatto un pericolo per la dorata prigione che tanto faticosamente si è costruito.
Il romanzo è più che bello, è splendido e credo proprio che considerarlo un capolavoro sia una valutazione appropriata..

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Consigliato a chi ha letto...
I Malavoglia, Storia di una capinera, entrambi di Giovanni Verga
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