Dettagli Recensione
Siamo rimasti quelli, e null’altro
Il gattopardo è un romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il suo nome trae spunto dal simbolo della famiglia dei Salina, parenti lontani dello stesso autore. Il racconto delle vicende che hanno segnato gli anni di potere della casata, è ambientato nella Sicilia borbonica e post-unitaria; e, sebbene al suo interno siano numerosi i riferimenti storici, non può essere classificato come romanzo storico. I personaggi, tutti realmente esistiti, sono stati parenti dello stesso autore, che ne ha voluto raccontare le vicende come esempio della società siciliana del tempo. Scritto con il cuore alla Sicilia e alla penna, il gattopardo è oggi un classico tradotto in tutte le lingue.
La storia della sua pubblicazione è abbastanza travagliata: il romanzo venne rifiutato più volte sia dalla casa editrice Mondadori ed Einaudi, che annunciò il mancato consenso all’autore pochi giorni prima della sua morte, che avvenne nel 1957. La prima edizione fu curata da Giorgio Bassani nel 1958 per “Biblioteca in letteratura”, anche se furono riscontrate imprecisioni e qualche incoerenza con il manoscritto; la prima edizione con la “Universale Economica Feltrinelli” avvenne soltanto nel febbraio 1963.
La storia si destreggia leggiadra tra le vicende e i pensieri di Don Fabrizio, il capo-famiglia ancora legato alla vecchia classe dirigente. Egli non ha fiducia nel cambiamento e, sebbene sia circondato da una numerosa schiera di figli e parenti, è un personaggio estremamente solo, se non fosse per le stelle, unico approdo sicuro da cui attinge serenità volgendo lo sguardo al cielo. Tomasi di Lampedusa utilizza Don Fabrizio per esprimere la sua opinione riguardo al cambiamento generazionale che ha colpito la Sicilia del tempo, legata ancora a una struttura tipicamente feudale che sembra reggersi da sola. L’autore ha modo di dare voce ai moti perpetui che sembrano aleggiare nel cervello dei siciliani che "non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria, ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla”. La voce rammaricata e rassegnata è la rappresentazione di una Sicilia segnata dai secoli, dalle dominazioni e dal paesaggio desertico, che non vuole cambiare perché si accontenta ad essere “così com’è”. E’ come se tutti stessero per muoversi per raccoglierla da terra, ma nessuno si muove, e così rimane in quello stato fino a quando non capisce che ce la può fare da sola (succederà?). E così i siciliani si chiudono in un mondo a se stante fatto di pettegolezzi, clima torrido e tradizioni conservatrici, l’ignoranza, i monumenti che vengono dal passato che sono “magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come fantasmi muti”. Il suo nipote Tancredi è l’emblema del ricambio dei ceti, Angelica quello di una bellezza sempiterna, Concetta quello di una vita persa nell’oblio della tristezza e Don Calogero quello di un politico con una gamba alla forma di governo passato e l’altra a quella nuova, con l’obiettivo di ottenere potere, in qualsiasi modo, Don Ciccio l’unico povero fedele al re di Napoli che si vede zittito da un sistema locale che cerca la novità più che il cambiamento. Bendicò non è figura trascurabile: tutt’altro! Come già l’autore aveva indicato a chi aveva raccomandato di riuscire nella pubblicazione del libro, egli rappresenta una figura-anello che non può essere in alcun modo dimenticata: il cane, sempre dimostratosi fedele e compagno al padrone Don Fabrizio, è la rappresentazione stessa della loro famiglia, il suo essere va di pari passo con quello dei Salina, la sua figura, rappresentata in secondo piano, rappresenta il punto fermo dell’intera narrazione: presente dalla prima all’ultima pagina.
La scena più rappresentativa è quella dell’incontro con Chevalley, segretario della prefettura, che propose a Don Fabrizio di entrare nel senato della nuovo Regno appena costituito. E ancora una volta la riflessione ricade sulla Sicilia e sul riciclo di cariche che il Regno vuole per assicurarsi il ben volere dei cittadini, che credono che il cambiamento di fatto non c’è perché le persone sono rimaste sempre quelle e sul rifiuto, sullo sfogo di Don Fabrizio, che tiene sulle sue spalle la consapevolezza dell’essere di questa terra. Cambierà qualcosa? Basta un seggio in Senato a cambiare qualcosa?
Lo stile che l’autore utilizza è sfarzoso: le parole e l’uso della sintassi sembrano dipingere il quadro rappresentante ciò che la Sicilia è: con i suoi limiti, con le sue bellezze, con le sue ragioni e i suoi perché. In modo scorrevole, il lettore si lascia attirare all’interno delle camere rococò e nei saloni immensi dove si ballano mazurke fino al mattino…
Il gattopardo è il racconto del passato del presente e del futuro della Sicilia, di quello che siamo come suoi abitanti e che non cambierà mai. Nel sangue scorre l’appartenenza ad una terra tanto grandiosa quanto pigra, che si accontenta delle sue ricchezze, mantenute dalla natura, sorella di questa regione. “Bisogna che tutto cambi perché non cambi niente”, perché oltre il tempo, al passare delle storie, delle dominazioni e dei personaggi, ci accorgiamo che siamo rimasti sempre quelli e null’altro.