Canne al vento Canne al vento

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Calderoni Opinione inserita da Calderoni    14 Gennaio, 2023
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Efix, una missione di espiazione del peccato

Canne al vento è riconosciuto dalla critica come il capolavoro di Grazia Deledda. Per me, è stato il secondo incontro con il Premio Nobel per la letteratura del 1926. Devo dire che rispetto al primo l’ho trovata notevolmente evoluta dal punto di vista dello stile. Se infatti in Cenere (romanzo del 1903) percepivo una ridondanza che allontanava la Deledda dalla nostra contemporaneità, allineandola maggiormente alla sua epoca di passaggio tra l’Ottocento e il Novecento, invece in Canne al vento (1913) nulla è fuori posto e anche il rapporto dei personaggi con l’ambiente circostante perde di pesantezza. Gli strumenti della natura sono docili strumenti in mano alla Deledda che li riadatta e li carica di valenze simboliche non indifferenti. Il linguaggio del capolavoro della Deledda è molto più sciolto rispetto al decennio precedente ed è solenne. Si tratta di una modalità di scrittura che non consente lunghe pause. La lingua attinge dal vero e il quotidiano imperversa con la sua contingenza.
La vicenda narra della parabola discendente della nobile famiglia Pintor e il contesto è quello della Sardegna più cruda e vera, una Sardegna calda e leggendaria di fine Ottocento nella quale si convive con la povertà e nella quale serpeggiano ancora le credenze popolari di fate, folletti, spiriti provenienti dall’oltretomba. La famiglia Pintor a inizio romanzo è ormai ridotta a tre sorelle: padre e madre sono morti, mentre la quarta sorella, Lia, è fuggita sul continente e ha avuto un figlio di nome Giacinto. Lia non è mai stata perdonata per l’affronto dalle sorelle Roth, Ester e Noemi, ma i rapporti epistolari con il giovane Giacinto non sono stati recisi, tanto che nei primi capitoli del libro viene annunciato l’arrivo del ragazzo presso la casa dei Pintor in Sardegna. Roth, Ester e Noemi conducono una vita grama, sbiadita, desolata e vedono sfiorire passivamente la loro giovinezza, un po’ bloccate e inorgoglite dalla superbia paterna. Noemi è senza dubbio la più sanguigna delle dame, ma è anche quella in cui le passioni si combattono con maggior veemenza, tanto che è lei che nutre per il nipote Giacinto una sorta di attrazione corrosiva.
L’arrivo di Giacinto destabilizza casa Pintor. Piace alle fanciulle del paese, in primis a Noemi, per la sua giovinezza un po’ leggera e un po’ irruente e per il suo fascino da straniero. Giacinto è però incosciente e troppo spensierato, tanto da cadere nella trappola dell’usura. Ciò costerna le zie che lo mettono formalmente alla porta. La parabola di Giacinto è tuttavia di crescita perché sa rialzarsi, mantenendo le promesse che aveva fatto, prima fra tutte quella di sposare Grixenda, ragazza che ha rischiato a sua volta la perdizione a causa del comportamento di Giacinto. Anche Noemi sul declinare della narrazione sembra diventar più docile e, come via di fuga dell’insana passione per il nipote, sposa il ricco cugino don Predu, che salva dalla rovina lei e la sorella Ester (Roth muore poco dopo il sopraggiungere di Giacinto in paese). Il matrimonio tra Noemi e don Predu ristabilisce una sorta di ordine nel dissesto che imperversava.
Non è un caso che nel giorno delle nozze tra Noemi e don Predu vada in archivio la missione esistenziale del protagonista assoluto del romanzo, ovvero Efix, il servo della famiglia Pintor. La sua vicenda è complessa e tutta intessuta di quell’imperativo di colpa-espiazione che è tipico della Deledda. Efix infatti uccise il suo padrone don Zame anni prima e poi rimase, senza che nessuno lo sapesse e senza che alcun sospetto macchiasse la sua figura, nella casa delle tre orfane per servirle, proteggerle ed espiare il delitto commesso. L’omicidio di don Zame fu del tutto casuale: Efix agì per legittima difesa per arginare la furia del padrone. A questo peccato se ne intreccia un altro: tutto accadde quando Efix aiutò a fuggire dalla casa paterna verso il continente Lia, di cui subiva il fascino. La fuga, come già accennato, destabilizzò l’intera famiglia e portò al rapido declino fisico e mentale di don Zame. Il protagonista è quindi ossessionato dalle sue colpe: aver provato una passione per la padrona e averne ucciso il padre. Ciò comporta che trascorra il resto della vita in balìa del sacrificio per espiare la sua colpa. Mette la sua vita nelle mani di Roth, Ester e Noemi. La sua missione viene resa ancor più estenuante dalla passività e dalla riluttanza al presente delle dame Pintor e poi dai disastri provocati dall’arrivo di Giacinto. Efix è costretto a ricomporre i cocci, a lavorare sotto traccia tra un attore e l’altro della sua famiglia e del suo paese. Tesse le relazioni con don Predu, con la nonna di Grixenda, con Giacinto e cerca di ristabilire quell’ordine che era venuto meno, anche a causa sua. Le ultime righe del volume lasciano speranza. Come detto, le tanto sospirate nozze tra Noemi e don Predu conducono Efix alla conclusione del suo lavoro: l’immobilità della morte è un augurio di serenità.
Efix si immola nell’azione di servire, è in tal senso il servo per eccellenza. Assolve al suo dovere pur senza essere pagato dalle dame Pintor, ormai ampiamente compromesse dal punto di vista economico. Nella seconda parte del libro arriva addirittura a mantenere le dame: la vendita del podere a don Predu fa sì che Efix diventi mezzadro dello stesso possedimento e quello che ricava serve per sostenere Ester e Noemi. Nel cercare di aggiustare le cose si procura ulteriori problemi. È lui difatti il principale accusato quando le cose con Giacinto volgono al peggio. Noemi si spinge ad accusarlo di aver tradito la famiglia Pintor per denaro, un’accusa basata sul nulla, a maggior ragione per la condizione retributiva del tutto sui generis di Efix. Nonostante tutto, resta fedele al suo compito perché deve espiare le colpe. Quando vede andare tutto a rotoli, fugge e si unisce a elemosinare insieme a un cieco, ma poi torna e sistema gli ultimi pezzi del puzzle. Non si può non fare il tifo per lui perché è una bella metafora della vita di ognuno di noi. Ogni essere umano è destinato a sbagliare, ma ogni essere umano ha la possibilità di rifarsi, sebbene questo possa provocare un’estenuante fatica. Efix sembra farcela. Convince l’arcigna Noemi ad accettare le proposte di don Predu e aiuta Giacinto a ritrovare la retta via. Del resto, è il primo a credere nelle potenzialità del ragazzo ed è l’ultimo ad arrendersi di fronte agli errori frivoli del figlio di Lia. Anche se Lia e don Zame a inizio narrazione sono già morti, ritornano costantemente nel romanzo: don Zame con il suo bagaglio di superbia e Lia nel ricordo delle sorelle e nel titanico ardimento del figlio.
Non manca, infine, un forte retaggio biblico in Canne al vento: dai nomi delle tre sorelle - Ruth, Ester e Noemi - ad analogie con episodi dell’Antico Testamento, a immagini cristallizzate nel loro vincolo con le Sacre Scritture (i racconti del cieco, le letture di Ester, i canti sacri). Siamo però ben distanti dalla Provvidenza manzoniana. Del resto, «siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne e la sorte è il vento».

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    03 Settembre, 2022
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Il vento è la sorte

Grazia Deledda, premio Nobel per la letteratura nel 1926, incarna quella che nel corso degli anni è stata la maggior parte della letteratura italiana: una letteratura profondamente legata al contesto autoctono (in questo caso sardo) e che mira a descriverne le peculiarità e i cambiamenti in determinati periodi storici. Il tipo di letteratura che personalmente non amo: lo dico subito, a scanso di equivoci. Sebbene la Deledda riesca abbastanza bene a scandagliare la psicologia dei suoi personaggi (soprattutto, in questo caso, del servo Efix) e offra uno stile piuttosto evocativo che in certi tratti mi ha ricordato il mio amato Cormac McCarthy (ma badate, in certi tratti), "Canne al vento" è comunque visceralmente legato alla terra in cui è ambientato e alle dinamiche che muovono il contesto sociale della campagna sarda. Questo legame, sebbene sia caratterizzante, rende l'opera molto soggetta al gusto del lettore, sebbene la Deledda abbia il pregio di andare più in profondità nell'animo umano e dare un pizzico di "universalità" al suo lavoro. Questo è probabilmente l'aspetto che più ho apprezzato del romanzo (e che probabilmente è una caratteristica dell'autrice che si è rivelata decisiva nell'assegnazione del Premio Nobel) ma in mancanza del quale ci troveremmo di fronte a una produzione che lascerebbe un po' indifferenti. Quest'universalità, tuttavia, chiama in gioco una spiritualità che al lettore moderno potrebbe apparire un po' obsoleta: ci offre uno sguardo su un lato dell'essere umano che il lettore potrebbe non sentire troppo vicino. Mentre il cammino d'un Siddhartha è pregno anche dei dilemmi e delle contraddizioni dell'uomo moderno, il cammino d'espiazione di Efix ha un carattere molto legato alla spiritualità del protagonista, una spiritualità non legatissima agli aspetti terreni, estremamente metaforico sebbene venga concretamente condotto dal servo.
Un po' invecchiato male, a mio parere; ma mai come in questo caso la percezione soggettiva è importante, dunque date alla mia opinione e alle mie parole il dovuto peso.

Al centro della storia, come abbiamo detto, c'è Efix: un servo che si occupa del "poderetto" delle sue tre padrone. In origine le sue padrone erano quattro, ma una di loro, una notte, decise di sfuggire alla rigida autorità del padre (che morì poco dopo), si sposò ed ebbe un figlio, lasciando alle sue tre sorelle "zitelle" un sentimento di rancore e abbandono. Questa donna, Lia, ai tempi del racconto è già morta e così suo marito, e infatti lo sconvolgimento che darà seguito agli eventi è proprio l'annuncio dell'arrivo di Giacinto, il figlio di Lia. Le tre sorelle reagiscono in maniera molto diversa tra loro, ed Efix ne sarà entusiasta, vedendo in quest'evento quel che potrebbe sconvolgere la vita grigia delle sue tre amate padrone. Avrà ragione, ma solo leggendo il romanzo si potrà capire in che senso.
Un romanzo che a mio parere va letto e discusso, perché sebbene non ne sia entusiasta può lasciare largo spazio al confronto e all'analisi congiunta.

"«Si, siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Siamo canne, e la sorte è il vento.»
«Si, va bene: ma perché questa sorte?»
«E il vento, perché? Dio solo lo sa.»"

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michele87 Opinione inserita da michele87    27 Luglio, 2021
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Uno spaccato di Sardegna del primo 900

Nel suo romanzo forse più noto, l’autrice descrive uno spaccato della Sardegna dei primi del 900, in cui i personaggi sono immersi in una cultura isolana estremamente distante da quella odierna. Il protagonista è Efix, un servo fedele alle sue 3 padrone cadute in disgrazia dopo la morte del padre e costrette ad abbassare il livello del proprio status sociale. La situazione peggiorerà ulteriormente quando Giacinto, il figlio di una quarta sorella emigrata a Roma, decide di trasferirsi in Sardegna. Atteso come un giovane brillante proveniente da una grande città, Giacinto si rivelerà invece un ragazzo immaturo ed inconcludente, che finirà per mettere a rischio i pochi averi restati alle 3 zie. Sullo sfondo di questa storia, descritto come un mero osservatore ma in realtà capace di indirizzare le scelte di tutti, c’è Efix che, seppur dubitando in taluni momenti della sua condizione e del senso della sua vita, riuscirà a trovare la giusta via d’uscita restando fedele al suo ruolo fino alla fine. Il tema principale del romanzo è la condizione di vita del singolo, che ognuno ovviamente cerca di migliorare, talvolta anche a discapito del prossimo. Non sempre però questo è possibile e, dunque, occorre accettare l’esistenza che siamo chiamati a vivere cercando di fare del nostro meglio, per noi stessi e per coloro che ci circondano.

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    20 Giugno, 2021
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I segni della bufera

"Ma perché questo, Efix, dimmi, tu che hai girato il mondo: è da per tutto così? Perché la sorte ci stronca così, come canne?» «Sì», egli disse allora, «siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento.» «Sì, va bene: ma perché questa sorte?» «E il vento, perché? Dio solo lo sa.» «Sia fatta allora la sua volontà», ella disse chinando la testa sul petto: e vedendola così piegata, così vecchia e triste, Efix si sentì quasi un forte". La situazione dell'uomo è precaria come quella delle sottili canne che, sferzante dalla forza impetuosa del vento, rischiano di venirne stroncate. L'essere umano, fragile e insicuro, è costantemente in balia di eventi avversi che la vita immancabilmente pone sulla sua esistenza, a cui lui, per quanti sforzi faccia, non riesce ad opporsi. Tutto ciò che può fare è affrontare con rassegnazione la tempesta, piegandosi, barcollando, adattandosi nella speranza di non uscirne spezzato. Tre sorelle, Ruth, Ester e Noemi, ultime rappresentanti di una importante famiglia ormai decaduta, i Pintor. Efix, un servo fedele e devoto, custode di un piccolo pezzo di terra da cui, tra fatica e stenti, viene fuori lo stretto indispensabile per tirare avanti. Un piccolo paese di montagna dell'entroterra sardo in cui tutti si conoscono, dove la vita ruota sempre intorno agli stessi luoghi e agli stessi personaggi, in un costante e invariabile equilibrio che niente e nessuno sembrano capaci di disturbare. Finché un giorno, annunciato da una lettera, giunge dal continente colui che riuscirà a mettere scompiglio nella famiglia Pintor e nell'intera comunità rurale. Giacinto, figlio di Lia, la quarta sorella, fuggita anni prima dall'isola in cerca di un destino migliore. L'arrivo del giovane scatenerà una bufera che lascerà segni funesti e incancellabili del suo passaggio, rivangando vecchie storie che covavano da decenni sotto la cenere, legando intorno al collo delle zie l'implacabile cappio dell'usura, promettendo per poi disattendere, disonorando senza provvedere al riscatto, pentendosi per poi ricadere nelle stesse tentazioni. Verista nella forma, decadentista nei contenuti, superlativa per il suo valore letterario, quest'opera, la più famosa e apprezzata delle tante regalateci del premio Nobel Grazia Deledda, si abbatte con forza sull'animo del lettore, straziandolo con la potenza delle emozioni e ammaliandolo con la qualità della scrittura e con il fascino delle dettagliate descrizioni. Un viaggio nelle comunità rurali di inizio 900, dove, a dispetto del vento di cambiamento che soffia sulle grandi città, permangono i vecchi costumi, le antiche servitù, gli incancellabili privilegi della nobiltà contadina. Dove vigono ancora spaventose superstizioni, dove gli ultimi non possono che restare ultimi e la loro unica possibilità di riscatto sembra quella di affrontare la vita come un lungo calvario in cui la sofferenza sarà il lasciapassare per una vita ultraterrena migliore. "Donna Ester, ricordandosi che gli piacevano i fiori, spiccò un geranio dal pozzo e glielo mise fra le dita sul crocefisso: in ultimo ricoprì il cadavere con un tappeto di seta verde che avevano tirato fuori per le nozze. Ma il tappeto era corto, e i piedi rimasero scoperti, rivolti come d'uso alla porta; e pareva che il servo dormisse un'ultima volta nella nobile casa riposandosi prima d'intraprendere il viaggio verso l'eternità."

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Belmi Opinione inserita da Belmi    17 Gennaio, 2021
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Perché la sorte ci stronca così, come canne?

Siamo in Sardegna, in un paesino di campagna, dove troviamo povera gente, arricchiti, caduti in disgrazia, disonesti e soprattutto superstiziosi.

“Era un giovedì sera e l'usuraia non filava per timore della Giobiana, la donna del giovedì, che si mostra appunto alle filatrici notturne e può loro cagionare del male”.

Tra i protagonisti principali troviamo Efix e le sue tre padrone rimaste sole e cadute in disgrazia. L'animo di Efix non è tranquillo, la sua coscienza ha qualcosa da espiare e per questo sopporta tutto e il suo unico scopo è quello di render felici le sue padrone. E quando le sue speranze sembrano ormai perdute, all'orizzonte si affaccia un parente uomo, che sia arrivata la salvezza?

“Egli spendeva e non guadagnava; ed anche il pozzo più profondo, pensava Efix, ad attingervi troppo si secca”.

Grazia Deledda crea un romanzo che per alcuni versi ricorda “Delitto e castigo”, qui troviamo un'anima tormentata che cerca di espiare la sua colpa e nel suo viaggio sono molti gli incontri che farà. L'autrice evidenzia anche la difficile vita del tempo e la dura condizione dei contadini, mette a nudo l'animo umano mostrando quello più nero e quello più puro e mette in luce le debolezze umane, la presenza dell'usura e come spesso la nostra volontà non può andar incontro al destino. Tutte questo però viene fatto con eleganza e con una scrittura ricca di immagini e spunti di riflessione.

La Deledda mi ha veramente conquistato, per me la sua è grande letteratura e il Nobel è proprio meritato. La mia unica colpa è stata quella di non averla conosciuta prima ma dopo questa lettura mi sono già appuntata altri titoli ed approfondirò sicuramente.

Un libro che consiglio.

Buona lettura!!!

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leogaro Opinione inserita da leogaro    29 Giugno, 2019
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Delitto e castigo in Sardegna

La storia si svolge all’inizio del Novecento in un villaggio sardo, Galte. Qui vive quel che resta della nobile famiglia Pintor, ormai decaduta. Il servo Efix si prende cura delle tre sorelle rimaste, Ruth, Ester e Noemi, gestendo un piccolo podere appena sufficiente al loro sostentamento. Le tre dame abitano ormai in una casa cadente, in povertà. Le Pintor lo mandano a chiamare perché, dalla penisola, è giunta una lettera di Giacinto, figlio della quarta sorella, Lia. Nel racconto, Efix ricorda l’infanzia delle Pintor, sottomesse alle ferree regole del padre, Don Zame: prepotente e geloso dell'onore della famiglia, egli teneva le donne recluse in casa, dedite ai lavoro domestici nell’attesa di esser maritate a un buon partito. Ma Lia si ribellò a questa condizione e fuggì a Civitavecchia; l’indomani, Don Zame fu misteriosamente trovato morto fuori dal paese. Lia, ripudiata dalla famiglia, si sposò ed ebbe un figlio, Giacinto. Nella sua lettera, il giovane annuncia di essere rimasto orfano e, insoddisfatto del lavoro alla dogana, chiede di poter raggiungere le zie in Sardegna. Le sorelle sono in disaccordo sul da farsi. Efix, invece, spera che l’arrivo del ragazzo riaccenda la speranza della rinascita della famiglia: “Sperare sì, ma non fidarsi anche. Star vigili come le canne, che a ogni soffio di vento si battono l’una all’altra le foglie, come per avvertirsi del pericolo”.

Giacinto arriva nei giorni della Festa del Rimedio ed è accolto dalle zie con sentimenti alterni. Il bel ragazzo desta subito l’attenzione di Grixenda, giovane vicina di casa delle Pintor. Già dai primi giorni, Giacinto inizia a spendere: viene visto giocare a carte, offrire da bere… inoltre, fa una corte serrata a Grixenda, che s’innamora follemente. “Spendeva e non guadagnava: e anche il pozzo più profondo, ad attingervi troppo si secca”. Incuriositi dalla sua apparente ricchezza, il sindaco Don Predu e il Milese, un ricco mercante, lo accolgono nel loro circolo. Efix sospetta dei suoi vizi e gliene parla: Giacinto, allora, confessa d’esser stato licenziato dalla dogana per aver truffato un ufficiale e che, orfano e spaesato, voleva cercarsi un lavoro onesto a Nuoro. Efix gli crede e lo difende dalle accuse dell’intransigente Noemi, la cui durezza nasconde in realtà una forte infatuazione per il nipote. Ester e Ruth, invece, s’indebitano sempre più per amore del nipote. Nell’oziosa quotidianità, Giacinto, ancora disoccupato, svolge piccoli servizi per il Milese, ma continua a perdere soldi al gioco e ricorre ai prestiti di Kallina. Efix parla all’usuraia e scopre che Giacinto ha presentato due cambiali, contraffacendo le firme di Ester. In paese, Giacinto è sparito da ormai tre giorni quando Kallina protesta le cambiali: venutane al corrente, Ruth muore d’infarto. Efix parte in cerca di Giacinto; lo trova a Nuoro, dove vive coi pochi soldi guadagnati col Milese. Efix lo rimprovera per la condotta che sta portando le zie alla rovina, ma Giacinto lo zittisce rivelandogli di conoscere il suo terribile segreto.

Efix, in preda ai rimorsi che riemergono dal passato, torna a Galte dalle Pintor, desiderose che il giovane non si faccia più vedere. Per sfuggire all’usuraia Kallina, Ester e Noemi vendono il poderetto a Don Predu, che s’accolla tutti i loro debiti. Convinto che ciò preluda al matrimonio tra Predu e Noemi, Efix abbandona la casa, deciso a espiare, mendicando, quelle colpe che gravano sulla sua coscienza. “Cuore bisogna avere, null'altro”. Ma il matrimonio tarda ad arrivare, per la riottosità di Noemi che, forse, nasconde qualcosa. E proprio Giacinto, prendendosi le sue responsabilità, potrà indirizzare correttamente la sua vita e quella delle zie, fornendo indirettamente loro l’ultima àncora di salvezza. Efix, fino alla fine, vivrà stoicamente per compiere il suo proposito morale, unico modo per metter finalmente pace nella sua anima tormentata. “La vita passa e noi la lasciamo passare come l'acqua del fiume, e solo quando manca ci accorgiamo che manca.”

L’opera è gradevole sebbene la lettura risulti, talvolta, eccessivamente lenta. Il linguaggio è semplice, a volte essenziale, non sfoggia ricercatezze particolari e, anzi, ingloba alcuni termini dialettali. La Deledda è brava nell’immergere il lettore nella Sardegna d’inizio Novecento, in bilico tra le tradizioni del passato e le innovazioni che stentano a far breccia. Ci tuffiamo così in una Sardegna aspra, immota, caratterizzata da una vita modesta ma genuina, intrisa di temi universali: amore, invidia, lealtà, povertà. Grazia Deledda è attenta nel tratteggiare, con vivida forza narrativa, i caratteri morali e psicologici dei suoi personaggi, regalandoci un classico della letteratura.

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autori classici attenti all'aspetto psicologico dei personaggi: pare doveroso citare Dostoevsky, ma anche Svevo, Pirandello e, perchè no, Joyce, Hawthorne e Virginia Woolf.
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Emilio Berra  TO Opinione inserita da Emilio Berra TO    10 Giugno, 2019
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Quiete apparente

"Siamo proprio come le canne al vento, (...) siamo canne, e la sorte è il vento."
"Sì, va bene: ma perché questa sorte?"
"E il vento, perché? Dio solo lo sa."

Una Sardegna che profuma d'antico. Tre sorelle nubili in una vecchia dimora testimone di un passato di ricchezza e specchio della decadenza attuale. Persino la più giovane di esse "riviveva talmente nel passato che il presente non la interessava quasi più".
Il loro attempato e fedele servitore, presso l'unico podere rimasto.
Ecco che si fa vivo un nipote ignoto, figlio di una sorella ora defunta, fuggita di casa ancora ragazza e mai più tornata.
Quasi in contrasto con la tetra casa, "il grande paesaggio pieno di luce", "sotto i monti azzurri e chiari come fatti di marmo e d'aria".

Dietro l'apparente quiete, c'è però un delitto e c'è il castigo. Il delitto è segreto e nascosto ; il castigo, un peso opprimente e dura una vita.
Certo che viene in mente Dostoevskij , ma il mondo e la scrittura della Deledda sono peculiari e legati alla sua terra d'origine lasciata per vivere a Roma ; una realtà lontana, fuori dalla Storia, fra leggende e tradizioni.
Anche la grande scrittrice sarda, come il celebre Autore russo, non è però ripiegata su stessa.
La sua bellissima scrittura, punteggiata di note cromatiche, tende a smorzare l'elemento drammatico della realtà rappresentata. Anzi, nelle sue pagine si percepisce chiaramente il soffio lieve che schiude alla luce.


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Mian88 Opinione inserita da Mian88    28 Agosto, 2018
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Come canne al vento...

«Ogni volta che si allontanava lo guardava così, tenero e melanconico, appunto come un uccello che emigra: sentiva di lasciar lassù la parte migliore di se stesso, la forza che dà la solitudine, il distacco dal mondo; e andando su per lo stradone attraverso la brughiera, i giuncheti, i bassi ontani lungo il fiume, gli sembrava di essere un pellegrino, con la piccola bisaccia di lana sulle spalle e un bastone di sambuco in mano, diretto verso un luogo di penitenza: il mondo.» p. 15

Efix è al servizio della famiglia Pintor da molti molti anni, ovvero dai tempi in cui il pater familias era ancora in vita e da prima che Lia, una delle sorelle figlie di questo, riuscisse a scappare per approdare a Civitavecchia luogo dove si era di poi sposata e dal cui matrimonio aveva avuto un figlio, Giacinto. Ormai appartenente ad una nobiltà decaduta che le obbliga a vivere di quel che riescono a ottenere dal poderetto di cui si occupa il fedele servo e sfiancate dall’usura, le tre donne padrone ricevono una lettera da questo sconosciuto nipote di cui a malapena conoscono dell’esistenza. Che fare? Come comportarsi? Ospitarlo? Che sia una buona notizia? Oppure il giovane non farà altro che riportare dolore e scompiglio nella famiglia? Perché dal giorno della partenza di Lia, è come se tutto si fosse cristallizzato in un passato che per quanto sia passato è ancora presente e che per questo è capace di continuare a ferire, a far soffrire. Tra decadenza, dolore, apatia, abbandono, rimuginare, rimorsi, errori. Pertanto quella missiva del giovane continentale non può che rappresentare un ritorno di quei giorni che persistono a non abbandonare queste figure così chiuse, incapaci di accettare e ancora meno perdonare quegli eventi. E ben presto, i fatti che si succederanno, le porteranno a chiedersi se forse questo passato non sia tornato per ripetersi, per ricalcare errori, dolori e angosce che appaiono senza fine come colpe insite nell’essere umano. Lo stesso Efix è vincolato da quei tempi che furono: immolato alle sorti delle sue nobili egli vive custodendo un segreto che lo consuma e lo distrugge perché a sua volta incapace di accettarlo, di ammetterlo, di farvi fronte.
Come dunque non accumunare la venuta del giovane con un rimanifestarsi di quelle colpe mai espiate da parte di tutti i personaggi? In questo contesto Efix è un simbolo, è l’emblema di questa condizione di immobilità, è la colonna portante di quel percorso costruito dall’autrice che passando per l’aspetto prettamente individuale e collettivo interiore, che passando per quegli ambienti mitici e magici che vengono descritti e dove le canne sono emblema della resistenza alla sconfitta e della tempra umana, al dolore, alla sofferenza, e passando ancora per una disamina tra il bene e il male, il giusto e lo sbagliato, si giunge a quella che è la finale e conclusiva morale di un componimento frazionato da aspetti di riflessione e ponderazione. Perché l’uomo è fragile ma al contempo resiste e non si spezza, se non talvolta, bensì si flette e piega, a quello che è il vento dell’esistenza.
A cornice di un contenuto variegato e toccante si affianca una prosa ricca, lirica e ascetica che dona pensieri, anime, silenzi, paesaggi, che semplicemente racconta quella sofferenza dell’io, quella impossibilità di rifuggire a quelli che sono i dolori dell’inconscio umano, anche in punto di morte quando quel dialogo si chiude insieme a quell’uscio che custodisce segreti.

«Efix ramenti, Efix rammenti? Sei andato, sei tornato, sei di nuovo in mezzo a noi come uno della nostra famiglia. Chi si piega e chi si spezza, chi resiste oggi ma si piegherà domani e posdomani si spezzerà. Efix rammenti, Efix rammenti?» p. 210

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Unda Maris86 Opinione inserita da Unda Maris86    27 Agosto, 2018
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Quadri viventi

“Canne al vento” non è un libro come un altro. O, meglio, non è un libro. Non so se vi è mai capitato di andare a vedere i cosiddetti “quadri viventi”: a me viene in mente, in primis, il “presepe vivente” allestito da una decina d’anni a questa parte, nel periodo di Natale, nei Sassi di Matera, la mia città. Ebbene, si tratta di manifestazioni in cui i figuranti “danno vita” a quadri famosi o, nel caso di Matera, ai personaggi del presepe. Ecco, “Canne al vento” è questo: un grande quadro / presepe vivente.

Già il titolo solletica la nostra immaginazione visiva e ci fa capire che, leggendo questo libro, ci addentreremo in una natura animata, piena di segreti, maestosa e terribile al tempo stesso. Una grande madre che sembra contenere nel suo grembo tutta la sapienza dell’umanità, quelle verità ancestrali che, nascoste ai più, si rivelano solo attraverso il corso inesorabile degli eventi.

Come lettori, ci si sente subito trasportati in quest’atmosfera un po’incantata, dove creature misteriose quali nani e panas (spiriti di donne morte di parto) fanno apparire la Sardegna di fine Ottocento una terra quasi fiabesca per poi lasciare spazio al realismo dei tanti paesaggi descritti (o, sarebbe meglio dire, dipinti) ed alla concretezza dei gesti del vivere quotidiano.

Al centro della storia, il destino delle tre sorelle Pintor, in ordine d’età Ruth, Ester e Noemi: tre nomi biblici per esaltare, forse, non solo la nobiltà di stirpe della famiglia, ma anche il senso di sacralità che attraversa, in silenzio, il progredire della trama. Tre nomi che racchiudono, inoltre, proprio come la storia della salvezza narrata nella Bibbia, la fede in una promessa: la speranza di una felicità nuova dopo il “vento” sfavorevole della cattiva sorte che ha piegato la famiglia Pintor portandola sull’orlo di una voragine sempre più profonda.

Ad incarnare simbolicamente il destino della famiglia ed il senso di tutta la storia, troviamo la figura del servo fedele, che, a ben vedere, ha anch’essa una chiara matrice biblica, oltre a rievocare il personaggio della nota parabola evangelica. Efix, questo il nome del servo, sente di essere attaccato al “destino tragico della famiglia” come “il musco alla pietra”. Egli, pronto a tutto per le sue padrone e fiducioso nella capacità di redenzione del loro giovane nipote giunto dal continente, don Giacintino, prende idealmente e fisicamente su di sé il peso di tutti i mali abbattutisi sulla famiglia ed affronta un viaggio di purificazione che tanto ricorda, per restare in tema biblico, quello del Cristo caricato della Croce verso il Calvario. Se vi sarà riscatto e resurrezione o, al contrario, solo l’ombra della notte, lo saprete non prima della fine.

Nel frattempo, avrete l’illusione di trovarvi anche voi in mezzo ai personaggi di questo grande “presepe” e, con un po’ d’immaginazione, anche voi ascolterete il suono delle canne che “sussurrano la preghiera della terra”. Perché è un libro di un’intensità unica che difficilmente scorderete. Una poesia vestita di prosa. Un quadro vivente racchiuso nella minuscola, ma magica e infinita, forma delle lettere.

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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    04 Febbraio, 2018
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Espiazione

Nella prima parte della mia vita da lettrice ho avuto una stretta frequentazione con i classici, ma, stranamente, non avevo ancora mai letto niente di Grazia Deledda: davvero imperdonabile, considerando anche che è stata l'unica donna italiana ad aver vinto il premio Nobel per la Letteratura.

Mi sono trovata di fronte ad un romanzo potente, dall'ambientazione incantata e mitica.
Efix, il protagonista, è un vecchio servo, rimasto fedele alle sue padrone dopo che il loro padre è morto. Molti anni prima, una delle quattro sorelle Pintor, Lia, era riuscita a scappare dalla casa paterna, probabilmente con l'aiuto di Efix. Era sbarcata a Civitavecchia e lì si era sposata ed aveva avuto un figlio, Giacinto. Il romanzo si apre con la notizia che il figlio di Lia, Giacinto, sta per arrivare alla casa delle sue zie: sarà una buona notizia? Oppure il giovane, come sua madre, porterà soltanto dolore e scompiglio alla famiglia?
Gli eventi scorrono lenti ed ineluttabili, secondo quanto vuole la sorte: i vari personaggi non riescono ad imporsi al destino.

Efix stesso è consumato da un tormento segreto, ha una colpa feroce che gli pesa sulla coscienza e che non riesce a dimenticare né ad affrontare fino in fondo. Dovrà intraprendere un lungo e faticoso viaggio, sia un vero e proprio cammino sia un percorso dell'anima, per raggiungere la tanto sospirata pace. Anche gli altri personaggi nascondono peccati e segreti, passioni inconfessabili, colpe nascoste, ognuno si porta dentro il proprio tormento.

Lo stile della Deledda è estremamente lirico, le descrizioni dell'ambiente e delle situazioni in cui si trovano a vivere gli esseri umani sono poetiche e languide.
Viene raccontato un mondo rurale che ormai non esiste più, una Sardegna meravigliosa ed arcaica.

“ La luna saliva davanti a lui, e le voci della sera avvertivano l'uomo che la sua giornata era finita. Era il grido cadenzato del cuculo, il zirlio dei grilli precoci, qualche gemito d'uccello; era il sospiro delle canne e la voce sempre più chiara del fiume: ma era soprattutto un soffio, un ansito misterioso che pareva uscire dalla terra stessa: sì, la giornata dell'uomo lavoratore era finita, ma cominciava la vita fantastica dei folletti, delle fate, degli spiriti erranti”. (p. 6)

Eppure le passioni, i sentimenti, i tormenti che muovono noi fragili esseri umani sono sempre gli stessi.

“ «[…] Ma perché questo, Efix, dimmi, tu che hai girato il mondo: è da per tutto così? Perchè la sorte ci stronca così, come canne?»
«Sì», egli disse allora, «siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la nostra sorte è il vento».” (p. 195)

Una lettura malinconica, triste, lirica, che può ancora parlare al cuore e alla coscienza di un lettore di oggi.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    05 Ottobre, 2017
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“Siamo canne, e la sorte è il vento.”

Non so se “Canne al vento” possa essere considerato il capolavoro assoluto di Grazia Deledda - come la particolare fama di quest’opera induce facilmente a pensare - dal momento che, tra romanzi e novelle, finora ho letto purtroppo soltanto una minima parte della a dir poco vasta produzione letteraria della scrittrice nuorese. Obiettivamente, il romanzo non manca di nulla che gli neghi l’etichetta appunto di capolavoro né, mi sento di dire, sfigura tra le opere dei nostri più grandi autori di fine Ottocento e primo Novecento.
Se “La madre” mi aveva indignata per il finale con il quale si conclude, se “Cosima” mi aveva incantata per lo “strano senso di sogno” che a tratti lo pervade, “Canne al vento” mi lascia ora un senso di inquietudine e smarrimento difficile da spiegare. Eppure anche qui ci sarebbe da indignarsi (per il giovane e scapestrato Giacinto che, a causa del suo comportamento, si sarebbe meritato di essere rispedito dall’isola al continente a suon di calci nel sedere; per donna Noemi che, al fine di fuggire dai sentimenti e dalla rovina economica, si rassegna infine a sposare chi non avrebbe mai voluto), anche qui ci sarebbe da incantarsi (davanti alle immagini di terra e cielo che si fondono in poetiche cornici dell’anima)… Ma l’incanto e l’indignazione del lettore sono sopraffatti da un intenso pathos che non viene meno neppure nelle ultime pagine, dal peso del destino che appare ineluttabile e contro cui è impossibile lottare, dal fruscio del vento che serpeggia indifferente nel canneto.
Siamo canne, sentenzia la penna deleddiana per bocca del vecchio servo Efix, e la nostra sorte è il vento: è l’essenza del romanzo, il messaggio cardine attorno a cui si svolge la vicenda narrata. Mi ha riportato alla mente l’immagine del giunco di Blaise Pascal: “L’uomo non è che un giunco, il più debole della natura”, quindi soggetto a tutte le intemperie dell’esistenza, caduco per sua propria condizione. Solo che, aggiunge il filosofo francese, “è un giunco pensante” e ciò implica un margine di meriti (e demeriti) personali sulla strada sia pur segnata del nostro destino. Del resto, lo stesso Efix, quando decide di recarsi al mulino per parlare con Giacinto, non pensa e agisce di conseguenza per cercare di risolvere una situazione in apparenza già decretata dalla sorte? E, sempre lui, non sceglie forse di ritornare al paese dalle sue nobildonne decadute, sebbene il suo destino gravato dal fardello di un’antica colpa non l’abbia guidato nel frattempo sulla via della penitenza tramutandolo in un mendicante errabondo?
“Canne al vento” non si limita però a questo: pubblicato nel 1913, esso è anche un romanzo che, tra fatalismo e rassegnazione, tabù e colpe da espiare usque ad mortem, fotografa la realtà sociale dell’epoca attraverso i colori inquieti dell’incontro-scontro tra vecchio che ristagna e imputridisce e nuovo che erompe e avanza con energica vitalità, magari facendosi largo a gomitate. È la novella società dei poveri arricchiti, mercanti e usurai come il Milese e Kallina, mentre ciò che resta dell’antica nobiltà di sangue si gioca a carte la propria dignità o si arrocca sdegnoso in palazzi che cadono a pezzi di giorno in giorno, proprio come le dame Pintor ridotte ormai a praticare ignominioso commercio di verdure pressoché di nascosto; persino il matrimonio di un servo figlio di servi con un rampollo sia pur squattrinato della ex aristocrazia terriera è una palese rottura delle antiche e silenti consuetudini che imponevano a ciascuno di stare se non con i propri pari.
Una lettura che fa male e molto riflettere. E questo perché il senso della vita, che sia dentro o fuori delle pagine di un romanzo, continua a essere il più grande mistero che non ci è dato comprendere.

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... altri romanzi della Deledda, ma anche a chi volesse inizare a farne la conoscenza.
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siti Opinione inserita da siti    26 Dicembre, 2016
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Un pugno di esistenze

Colpa ed espiazione, condanna del vivere e accettazione del bene e del male in esso insiti, fragilità umana ed epica resistenza, un’unica immagine ad esprimerla: le canne al vento, piantate nella terra, condannate all’elemento, capaci però di flettersi, talora di piegarsi, anche spezzarsi, a volte.
Efìsi, il servo sopravvissuto ai vecchi padroni, è immolato al destino delle loro tre figlie, custodi di un’antica nobiltà, di un rango decaduto, superstiti all’interno di una vecchia dimora capace di generare solo ortiche, ferite dalla vita e dall’abbandono della loro sorella, partita a tradimento, a cercare la sua libertà, la sua vita. Da quel giorno la loro esistenza si è cristallizzata, il padre morto, la famiglia in rovina, la sorella lontana, ormai madre e, mai perdonata, morta. Eppure il passato torna, veste gli abiti del figlio da lei generato che torna e, irrisolto, nella sua stessa generazione, entra di prepotenza in una famiglia chiusa, incapace di accettarlo e tanto meno di perdonarlo quando con le sue azioni pare reincarnare nuovi errori rinfocolando passioni mai sopite …
E tornano insieme a lui le colpe , non solo quella del servo, ma di tutti i personaggi, sapientemente rappresentanti nelle loro peculiarità, nella loro composita individualità fatta, in tutti, di bene e in ugual misura di male. Efìsi assurge a simbolo, efficace, di tale condizione, è il fulcro su cui è costruito un interessante impianto narrativo, è la cartina al tornasole della bellezza del paesaggio, dell’amore per la terra, delle sovrapposizioni dei pensieri, delle usanze e della morale, è in ultimo il cardine su cui ruota un pugno di esistenze che la vita ha generato in un territorio, piccolo, infimo, stretto quanti gli usci di case confinanti che non sono più capaci di aprirsi agli altri.
La prosa ricca ed efficace svetta in pagine di puro lirismo, restituisce i pensieri dei personaggi, anima i dialoghi, riempie i silenzi, descrive il paesaggio, racconta l’ambiente, svetta infine trionfante nel pensiero di un moribondo, richiudendo delicatamente l’uscio a proteggere gesti delicati e intimi.

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lapis Opinione inserita da lapis    23 Febbraio, 2016
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Siamo canne, e la sorte è il vento

Attraverso pagine intrise di lirismo e poesia, Grazia Deledda ci porta nel cuore della Sardegna, in una società arcaica in cui il fascino della natura si fonde con miti e superstizioni, con la morale della religione e, soprattutto, con i volti e le passioni degli uomini.

Una vita rurale e dal sapore antico, quella del vecchio Efix, che serve con umile e ostinata fedeltà le sorelle Pintor, simbolo di una nobiltà ormai decaduta ma ancora orgogliosa. Una vita semplice: una cipolla consumata in una cadente capanna, terre da coltivare con fatica, tramonti che scandiscono le giornate. E notti di luna abitate da folletti e spiriti erranti, proiezione di angosce ed errori che non danno tregua.

Le parole di Grazia Deledda hanno suoni, colori e linee ben definite che vanno a disegnare vivide immagini: la vecchia casa Pintor che va in pezzi così come le antiche regole che hanno intessuto la società, la musica della fisarmonica di Zuannantoni che risale la montagna, il ballo alla festa del Rimedio vibrante di femminili speranze e le canne del fiume piegate dal vento, simbolo dell’ineluttabilità di un destino che non dà pace. E le parole sono capaci di penetrare allo stesso modo anche nelle pieghe dell’anima di un’umanità che appare fragile e inquieta, e in questo senso modernissima. Sono uomini corrosi da colpe e rimorsi, ossessionati da passioni infelici e debolezze inconfessabili, animati da rancori, dubbi e speranze. Sono uomini alle prese con la scelta di come proseguire il proprio cammino e trovare così la propria strada di espiazione e perdono: nel rapporto con gli altri, nel lavoro, nella propria coscienza. Perché un riscatto potrebbe essere ancora possibile, anche se forse dal sapore amaro.

Ammetto che lo stile lirico ed enfatico mi è risultato a tratti di difficile lettura, ma il fascino di questo mondo antico, che ti si imprime negli occhi con la sua forza descrittiva e la sua potenza introspettiva, merita sicuramente lo sforzo.

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giov85 Opinione inserita da giov85    31 Agosto, 2014
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Un capolavoro

Canne al Vento, capolavoro della scrittrice Premio Nobel, Grazia Deledda, è il romanzo del rimorso, dell’espiazione suprema. Il protagonista, il servo Efix, lavora per le sorelle Pintor, nobili decadute, con un’abnegazione ed un amore che sembrano innaturali: egli sta pagando lo scotto di un vecchio peccato, conducendo una vita santa, con l’unico obiettivo di proteggere le tre sorelle. Le giornate passano uguali per Efix e per le sorelle, finché non giunge al paese Giacintino loro nipote, che porterà la famiglia sull’orlo del tracollo finanziario. Dalle pagine del romanzo svetta la figura del servo, che combatterà strenuamente per evitare il disastro e, intraprendendo un cammino interiore vedrà, beffato dal destino, realizzati i propri sforzi ed i propri desideri solo in punto di morte. Questo processo di crescita, questa capacità di accettare il peccato e soprattutto il conseguente castigo come unica via di purificazione, rende Efix uno dei monumenti della letteratura moderna.
“Siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento.” Le nostre vite sono in balia del vento del destino, possono ondeggiare a destra, a sinistra, talvolta spezzarsi. Ma non si tratta di un messaggio di passività. Dalla lettura del romanzo scaturisce un significato ancora più profondo: il vento, la sorte, non sempre spezza le canne, molto più spesso queste resistono, si piegano e continuano a vivere. Gli unici nerbi, che possono permetterci di reagire alle folate del vento, il nostro destino, sono l’amore per il prossimo e la comprensione, che dovrebbero sempre guidare tutte le nostre azioni.

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Delitto e castigo
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C.U.B. Opinione inserita da C.U.B.    26 Giugno, 2014
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In Sardegna

L'amore e' istinto geologico, l'emozione che corre tra una scrittrice e la sua terra, un legame cantato tra le righe da un rapporto piu' profondo di quel che lega l'albero alla radice.
Così era nel secolo scorso in terra di Sardegna, dove la natura in simbiosi con l'uomo e' adorata da  Deledda in un racconto che sa di semplicita', di poverta' , di sofferenza e gioia tra la cruda realta' e le magie di un piccolo villaggio ancorato ad una tradizione spruzzata di mitologia.
La penna dell'autrice e' prosa poetica priva di sfarzo, con la delicatezza di grazia ovattata affonda le sue doti narrative in pagine indimenticabili, da contemplare riga dopo riga focalizzando i deliziosi personaggi caratterizzati in maniera impeccabile, così come le intense ambientazioni. Gente e luoghi e stile d'altri tempi sì, ma forse anche per questo così preziosi.
Il servo Efix contempla la sua baracca nel poderetto,  lo sguardo da amante che dimentico della miseria e della malattia si perde in quell'oasi in cima alla collina, tra il verde dei campi e l'ondulare del canneto. In fondo e' tanto semplice la filosofia del pover'uomo : per essere ricchi basta essere felici e dal tetto bucato si vedono le stelle. Per il resto ortaggi, frutta  e formaggio zittiscono in qualche maniera il brontolio dello stomaco.
Canne che non sono solo vegetazione, sono la passione di Deledda per i suoi luoghi, sono la preghiera che di notte esse raccolgono da terra e innalzano al cielo per mezzo del vento. Sono spadaccini che lottano nella tempesta e la mattina giacciono senza vita, le canne superstiti piangono lacrime di pioggia,  prostrando le fronde ai placidi caduti.
Poi scende ogni giorno la notte e canta l'usignolo in cima all'albero, la nostalgia gioca a nascondino coi fantasmi ed i folletti del buio. La sposa ha detto sì, Efix.
Buona lettura.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    12 Settembre, 2013
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Canne al vento

Leggere le opere di Grazie Deledda significa farsi trasportare in luoghi e tempi oggi lontani.
E' la terra sarda, con la sua natura aspra e incontaminata, i suoi odori, i frutti della terra, bene prezioso e vitale, i fiori profumati, gli alberi mossi dalle voci del vento.
E' la terra sarda e le sue genti; una terra avvolta da un misticismo misterioso e cupo, segnata dall'osservanza delle tradizioni e dei culti locali.
I personaggi che animano le pagine di questo romanzo sono uomini e donne schiacciati dalla vita e dal loro destino; la bontà si mescola al rancore e all'egoismo, la malvagità si fonde con la ricerca del bene;insomma la mano invisibile del fato sembra competere con il libero arbitrio dell'uomo.

La mano dell'autrice oltre a cogliere l'essenza della sua terra, si propone sempre un'indagine sull'uomo, sui suoi volti, sui suoi errori.
L'uomo della Deledda è un essere corroso da rimorsi, da dubbi, è un uomo talora in balia di un destino avverso e deve scegliere la strada, rapportandosi col prossimo.

Canne al vento è un racconto intenso, a tratti lirico a tratti duramente realistico, mosso da un flusso narrativo liquido e denso al tempo stesso, dove la tensione accumulata si scioglie solo alla fine.

Una grande voce della nostra letteratura, che ci ha lasciato una sua personale rappresentazione della vita; una vita in cui il bene incontra spesso la strada del male, una vita dove il dolce svanisce nell'amaro.

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Giulian Opinione inserita da Giulian    30 Luglio, 2012
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Lettura irrinunciabile

Pur essendo narrata dal punto di vista privilegiato di un personaggio (il servo Efix), è una storia corale, animata da tante personalità molto ben definite, con caratteri, abitudini, mentalità assolutamente plausibili ed approfonditi. Alcune scene collettive (come la festa di Nostra Signora del Rimedio descritta nel quarto capitolo) immergono il lettore nello spirito della tradizione sarda, con la sua religiosità popolare, i suoi colori e accenti, i suoi principi di vita e valori, spesso sintetizzabili in un detto, un proverbio, una racconto magico, una superstizione, e assumono una risonanza quasi epica. Sono molto accattivanti i dialoghi, che sanno riflettere in modo coerente e naturale le caratteristiche di ciascun personaggio. La storia è appassionante e carica di tensioni. La descrizione paesaggistica (ridondante, come in tutti i romanzi della Deledda) dà risalto alla straordinario ambiente naturale della Sardegna, aspro, selvaggio eppure ricco di colori e sfumature. Il tono della narrazione è spesso enfatico, e ciò può alla lunga disturbare il lettore contemporaneo abituato ad una prosa più informale, ma va ragionevolmente collocato nel periodo storico-letterario della composizione del romanzo. Lettura di alto pregio, irrinunciabile per chi non conoscesse l’opera, da replicare per chi (come me) l’avesse affrontata solo a scuola.

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Cristina72 Opinione inserita da Cristina72    04 Aprile, 2012
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"Efix rammenti, Efix rammenti?"

E' un romanzo di misteri arcaici e verità inconfessabili, denso di atmosfere che la scrittrice tratteggia usando le parole come un pittore i colori.
Quella raccontata dalla Deledda è la Sardegna più autentica, un paesaggio di rocce, ulivi e fichi d'India, tenebroso e a tratti mistico, popolato nelle notti di luna da spiriti, nani e piccole fate che suscitano paura e rispetto negli abitanti.
Ma lo sguardo sui personaggi è concreto e quasi impietoso, penetra nelle pieghe più riposte dell'animo e tocca corde comuni a tutti gli esseri umani, raccontando vicende di respiro universale.
La figura del servo Efix, indole inquieta e appassionata non meno delle sue padrone, nobildonne ridotte in miseria, acquista sempre più intensità nel corso della narrazione e finisce per rappresentare l'Uomo per antonomasia, con un cammino di gioie e dolori da percorrere, di errori da espiare.
Condividiamo i suoi tormenti, comprendiamo le sue colpe, proprio come le canne sopra il ciglione, non lontane dalla sua capanna, che mosse dal vento sembrano sussurrargli parole di saggezza:
“Chi si piega e chi si spezza, chi resiste oggi ma si piegherà domani e posdomani si spezzerà.
Efix rammenti, Efix rammenti?”.
E' il vento del destino, è la volontà divina, ed Efix vi si sottomette, senza però trovare la stessa rassegnazione negli occhi “cattivi pieni di lagrime” della padrona Noemi, intensa e tormentata figura di donna.
C'è un legame doloroso e sublime tra cielo e terra, ben rappresentato dalla statua del Redentore che domina il paesaggio nuorese dal monte Ortobene, ed è questo che il servo capirà tornando a casa dopo mesi di angoscioso vagabondare.

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