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Giochi di guerra
Sulle piattaforme streaming è disponibile il film omonimo a regia del noto attore Claudio Bisio, che ne ha tratto in verità un buon lavoro, permeato da una sottile ironia, talora insistendo come da suo ruolo più in una palese vis comica che in un concentrato di genuina ed affettuosa amicizia tra coetanei preadolescenti, come in effetti è, riuscendo tuttavia a mantenere intatta almeno un tanto del valente intento etico e poetico del romanzo che, nel testo all’origine della sceneggiatura, è l’attributo principe. L’amicizia vera, innocente, genuina, è il punto di forza, il cardine su cui ruota agevolmente il toccante resoconto di un viaggio di iniziazione. “L’ultima volta che siamo stati bambini” è un libro dolce, gradevole, davvero delicato, a firma di Fabio Bartolomei, un racconto suggestivo e struggente una volta letto per bene il contenuto tra le righe. Perché il testo scritto in sé può apparire didattico e moraleggiante, magari piatto, banale, parecchio infantile, più un racconto pedagogico, a tratti idilliaco, anziché quello che in effetti è, una cronaca spassionata, stupita e sconcertata di tempi aspri e tormentati. Durissimi per il corpo e per l’anima, specie per gli ultimi come possono esserlo solo i bambini, da loro stessi testimoniata, e perciò reale, prosaica. Succede spesso quando si narrano le storie con bambini protagonisti, che si sottovaluta il contenuto, quasi che la letteratura con bambini sia identica a quella per bambini, che è cosa ben diversa.
Si tende a classificarla in serie inferiore, quella delle favole fini a sé stesse, a scambiare l’infanzia per un universo alieno, gratuito e superficiale, da sopportare con pazienza, magari sorridendone, e scadere nello stereotipo dell’incanto del tempo dell’infanzia innocente e inconsapevole, ignara e persa dietro futilità, marachelle, pensieri e parole fatue. Quasi che i bambini non fossero individui in divenire, si, ma pensanti, soggetti attivi a sé stanti, creature seppur con meno anni, e però senzienti e recipienti, ricettivi con attenzione, elaborazione e saggezza di tutto quanto gli si propina nella crescita.
Trattandosi di bambini, si tende a sminuire, a distrarsi, a non prestargli importanza, quasi fosse un’epoca della vita in cui quanto gli accade, tranne pochi accidenti, non può rivestire soverchia importanza ed interesse, niente a che fare con i fatti davvero importanti dell’esistenza.
I bambini sono irrilevanti, infine, i fatti salienti sono altri, almeno all’epoca in cui è ambientata la storia, all’indomani del disastroso armistizio di settembre del ‘43 nel nostro Paese, diviso in due tra tedeschi e repubblichini da una parte, alleati e partigiani dall’altra, insomma cose serie, cose da adulti: la guerra, la politica, le leggi sulla razza, il rastrellamento di ebrei e la loro deportazione, e cose così, affari assennati, fondati, giudiziosi, di primaria importanza, non giochi da bambini. Dimenticando che i bambini ci guardano, assimilano, imitano, fanno loro anche i giochi di guerra, e però la loro mente, il loro giudizio, le loro considerazioni non sono ancora deteriorate dalla crudeltà umana dettata dal delirio di onnipotenza, di odio per i presunti diversi, dall’assenza assoluta di empatia, affetto e solidarietà per i propri simili. Le gesta, i pensieri, le riflessioni dei piccoli, in particolare dei primissimi preadolescenti, sono ancora germogli in divenire, il loro primo humus ancora si basa sull’empatia, sull’amicizia, sull’affetto e sul calore tra di loro, sulla concordia e l’armonia, finanche sul cameratismo, inteso però come aderenze comuni, lealtà, accordo, in sintesi rispetto, tutto quello che purtroppo troppo spesso si perde poi in là negli anni, per pura omologazione con la massa disgraziata.
Fabio Bartolomei utilizza con semplicità una prosa agile, rapida ma non sbrigativa, funzionale ed efficace nel tratteggiare i suoi personaggi, stilizzandone i caratteri significativi e le loro azioni, con poche pagine svelte, spedite. Direi che è dotato di uno stile disinvolto che dice, descrive, racconta, poi lascia il lettore libero di fare le sue considerazioni, fornisce un assist spiccio, però logico e ordinato, da cui trarre inevitabili riflessioni che ammaliano, colpiscono, spesso commuovono, sempre ti toccano.
Questo romanzo non è un racconto di crescita, è piuttosto una storia di resistenza di bambini che non intendono crescere a misura di adulti, di quegli adulti, i più, che manifestano sentimenti a loro estranei di inimicizia, di contrasti, di dissapori e discordie.
Quattro bambini nella Roma bombardata dagli alleati, con la guerra becera, il duce destituito, i tedeschi pronti a rastrellare i partigiani, la fame, la miseria, la paura: eppure si ostinano a restare bambini. A fare amicizia tra di loro, a parlarsi, a confrontarsi, ad aiutarsi malgrado differenze di vario genere, manifestando il tutto nell’unico modo con cui i bambini comunicano magnificamente tra loro, con il gioco. Finanche giochi di guerra: ma la loro non è la distruzione cieca ed insulsa degli adulti, fanno la guerra magari con spade di legno, scudi di cartone, fionde, certo finanche con armi più moderne, armi giocattoli o realizzati ex novo con la loro fantasia che ricicla abilmente materiale di risulta. Bambini diversissimi tra loro: Italo, l’obeso ragazzetto balilla figliolo del podestà locale, Cosimo, che viene da una famiglia popolare, privato a forza dal prediletto papà spedito al confino perché antifascista, Vanda, una ragazzina orfana cresciuta in un convento dalle suore, tanto abile e intelligente quanto sofferente per la mancanza di una famiglia, ed infine un piccolo ebreo, Riccardo, con tanto di stella di Davide cucita sul petto.
Tutti insieme appassionatamente: poiché la loro unione genuina, e di conseguenza di fratellanza, di intesa, di elezione. crea tra loro un legame leale di appartenenza, una vera e propria etica amorosa che li isola, li protegge, li accudisce, come e meglio della migliore delle famiglie.
Perciò quando un bel giorno il piccolo ebreo Riccardo sparisce di colpo, e con lui tutta la sua famiglia, e quasi tutti i residenti del ghetto ebraico, i tre rimasti chiedono, girano, indagano, finiscono per scoprire che il loro amico, del tutto uguale a loro, anzi molto più “ariano” di quanto favoleggiano gli adulti, i tre sono tipici italiani bruni e scuri ed il loro compagno ebreo è invece biondo e con gli occhi chiari, finiscono per scoprire che Riccardo è stato caricato su un treno con destinazione in Germania, in un posto un po' misterioso, ma comunque non malvagio, si dice che lavoreranno e se si comporteranno bene, ecco, allora sono al posto giusto, lì il lavoro rende liberi.
I tre però non ci stanno: si informano, pare che la Germania non sia poi così lontana, basterà seguire i binari del treno, poi una volta giunti lo libereranno, spiegheranno tutto ai tedeschi, la bambina grazie ad una suora germanica parla bene il tedesco, uno di loro è il figliolo di un gerarca fascista della prima ora e fratello di un eroe militare, il terzo è pronto a giurare che l’amico ebreo è in realtà di razza italiana pura, insomma i tre, di nascosto dalle famiglie, si mettono in viaggio decisi a raggiungere Riccardo e riportarlo alla base. Un viaggio che si rivelerà un percorso di iniziazione, un tour a modo loro avventuroso e faticoso, una specie di traversata con una zattera sui marosi dell’esistenza adulta, un po' come quello che a suo tempo descrisse Mark Twain, quello di Huck Finn e dell'inseparabile amico Tom Sawyer; solo che il mondo degli adulti, avranno modo di scoprire, è ben altro che saggezza, maturità, benevolenza, è un universo ignorante, maleducato, anaffettivo e inconciliabile con la sola vita detta a misura d’uomo, che è quella a guisa di bambino. Per questo, a cose fatte, per potersi salvare l’anima, dovranno necessariamente rivedersi dove tutto è iniziato, l’ultima volta che sono stati bambini. Loro direbbero per amore del loro amico, ma gli adulti, si sa, sono sempre tanto stringati quanto pomposi, usano dire: Per non dimenticare.
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