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Il fascino della jungla
Il secondo titolo della serie dei pirati della Malesia è ambientato ben lontano dai mari in cui Sandokan scorrazza nel volume precedente: ci troviamo nel delta del Gange a seguire le peripezie del cacciatore di serpenti Tremal-Naik, disposto a tutto per impalmare la adorata Ada. Il problema è che la giovane è costretta al ruolo di sacerdotessa di Kalì dalla sinistra setta dei Thugs, abili strangolatori comandati dal perfido Suyodhana. Il romanzo è diviso in due parti pressappoco equivalenti che sono in pratica racconti che potrebbero avere vita propria delle quali, seppur pari è la capacità di divertire e appassionare, la prima si fa senza dubbio preferire. Approfittando dell’ambientazione in una una giungla misteriosa e piena di rischi – tra alligatori, tigri ed esseri umani – per non parlare di cadaveri che il fiume sacro porta verso la foce, Salgari riesce a costruire un’atmosfera di incantamento malsano già dalla descrizione iniziale, una sorta di piano-sequenza che svela con un abile crescendo i mefitici luoghi che costituiscono la base e il nascondiglio degli adepti di Kalì. Sul limitare della regione vive il personaggio principale che, messo sottosopra da una fugace visione di Ada, conosciuta come la ‘vergine della pagoda’, si mette in testa di liberarla: accompagnato dal fedele Kammamuri si lancia in un’impresa impossibile che rischia di costargli la pelle, ma, dopo aver sventato l’agguato di una talpa, non appena si riprende va di nuovo a ficcarsi nel quartier generale del nemico. Il racconto si svolge intriso di magia e di mistero in un mondo che pare vittima di un malvagio incantesimo: sensazione che si perde (assieme a Kammamuri) nella seconda parte quando Tremal-Naik, fatto prigioniero e ricattato con la sorte di Ada, accetta di uccidere per conto degli adoratori di Kalì il loro peggior avversario, ovvero il capitano inglese Macpherson. Egli non sa – ma il lettore sì – che l’uomo è il padre della ragazza ed ha giurato di ricongiungersi a lei a ogni costo: dopo un primo contatto nella residenza di campagna del militare, inizia una sorta di doppia caccia, con il protagonista che insegue il rivale diretto alla sede dei Thug mentre alle calcagna si ritrova i sipai del brillante sergente Baharata, seminato solo dopo una complicatissima fuga nei sotterranei di una Bombay popolata di inquietanti fachiri e bramini. Ovviamente, tutto è bene quel che finisce bene con lo svelarsi dei personaggi uno all’altro, sebbene sia inevitabile avvertire un pizzico di fretta nel chiudere dopo le molte e lunghe scene d’azione precedenti: nel contempo, però, Salgari lascia il finale semiaperto con le ultime righe che preludono a futuri, sinistri sviluppi. Nel complesso e al netto di poche ingenuità come l’insopportabile Darma, la tigre ammaestrata che accompagna Tremal-Naik, il romanzo sa sprigionare ancor oggi un notevole fascino, facendosi preferire a ‘Le tigri di Mompracem’ in virtù anche di una figura centrale che, pur patendo le stesse pene d’amore, risulta meno monolitico e perciò assai più empatico di Sandokan.