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Natale in casa Cupiello
 
Natale in casa Cupiello 2021-04-03 22:40:36 Bruno Izzo
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    04 Aprile, 2021
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Pastorale napoletana

Questo probabilmente è tra i più noti dei testi teatrali del grande commediografo napoletano Eduardo De Filippo, se non la sua commedia più conosciuta in assoluto, anche perché, quasi come fosse una sana abitudine da tramandare agli spettatori, viene puntualmente riproposta in onda dalla televisione nazionale durante le festività natalizie.
Una commedia datata, risale al 1931 addirittura, eppure è un testo incredibilmente attuale, non scade mai, non ha mai perso né la sua verve, né la sua validità, il suo intento ed il suo significato artistico, la freschezza di testo arguto, trovate comiche e di linguaggio verace, il suo messaggio è incredibilmente vitale ancora oggi, a decenni dalla sua scrittura e dalla sua prima messa in scena.
Contrariamente a quanto si possa pensare, non è una recita natalizia, in senso stretto, o almeno non è solo quella, se proprio si vuole, ad onta del titolo e della rappresentazione scenografica classica della nascita di Gesù e della Notte Santa, il Presepe, di cui un esemplare artigianale, un tipico manufatto familiare “fatto in casa”, alla buona e però con cura e maestria, campeggia vistosamente in primo piano in tutti e tre gli atti della commedia.
Nemmeno è la storia sorridente e macchiettistica del degrado di valori di un tempo, la famiglia in primo luogo, in un racconto ambientato tra l’altro in una città e in un contesto dove la famiglia è un’istituzione sacra, letteralmente una Sacra Famiglia, da difendere strenuamente contro tutto e contro tutti, in particolare contro le novità avviate dai tempi nuovi, che hanno introdotto nuove mode e tendenze che ne vogliono deteriorare, in nome di un certo mal sentito modernismo, la sacralità e la rilevanza assoluta. La famiglia è famiglia, il matrimonio sacro è indissolubile, le feste comandate vanne santificate come Dio comanda, e via dicendo.
Questo è il credo di Luca Cupiello, napoletano doc.
Napoli, certo, è una città difficile da vivere e da viverci, ma è anche la città che ti accoglie, ti offre rifugio, perché per indole, per storia, per tradizione, ha più di altri luoghi la venerazione e l’accettazione piena di valori e simboli intangibili da sempre.
Lo dice una certa cultura, lo dipinge il folklore popolare, lo si canta nelle sceneggiate.
La prima in assoluto è la Famiglia, quella dove si nasce, si cresce, ci si distacca per formarne una propria, ma sempre mantenendo i legami con quella di origine, perseguendo il modello della tribù allargata, mantenendo l’ordine e soprattutto l’attribuzione di cariche e ruoli istituzionali, attribuiti nel tempo a ciascuno, così che ognuno a suo tempo è figlio, poi diventa padre, infine nonno, e via così, il ciclo della vita a rotazione immutabile. Dove la Mamma è la Regina della Casa, l’angelo del focolare attorno a cui giostrano tutti gli eventi del microcosmo familiare, i figli sono pezzi di cuore, da glorificare e giustificare sempre davanti a tutti, e riempire di scapaccioni in privato alla minima mancanza, “per il loro bene”, il Capofamiglia è un autentico “Pater familias”, a cui è dovuto solo obbedienza cieca, pronta e assoluta.
Una istituzione intangibile, quindi, dove tutti si ostinano, volenti o nolenti a mantenere in vita lo status quo, perché tutti fanno parte di una famiglia, bene o male, quindi il mantenimento dello stato delle cose garantisce il proseguimento del “quieto viere” ambito come la massima onorificenza che la vita possa conferire all’individuo. La Famiglia protegge, assiste, supporta, verrebbe da dire che “Gesù è nato a Napoli”, e in verità un uomo di pensiero napoletano, Luciano de Crescenzo, ebbe a dirlo per davvero. Porre in discussione ruoli e funzioni della famiglia, significa destabilizzare, significa venir meno di cariche e privilegi, significa non continuare la propria esistenza nella maniera più quieta e meno traumatica possibile, ognuno coltivando il proprio orticello con il proprio egoismo e la propria indolenza di apertura al nuovo, al progresso, all’emancipazione.
Tuttavia, “Natale in casa Cupiello” è tutto questo certamente, ma anche qualcosa di più, ed in questo consiste il suo valore ed il suo mantenersi sempre attuale, direi che è una chiara prova della lungimiranza di Eduardo, che con la sua sensibilità di artista, intuiva in anticipo quello che sarebbe accaduto alla società in un futuro più o meno prossimo, se le cose dell’uomo, i suoi modi di essere e di concepire l’esistenza, non fossero cambiati radicalmente.
La trama è notissima: si approssima il Natale a casa di Luca Cupiello, una dimora povera e miserabile ma che si ostina a mantenere una parvenza di decorosa dignità, come il suo capofamiglia, pensionato.
Completano il quadro di famiglia la moglie Concetta, avanti negli anni, depressa per gli acciacchi dell’età e per le privazioni e le fatiche di un’esistenza con tutta evidenza tribolata e piena di dispiaceri; il figlio Tommaso, detto Nennillo, giovane già in età di marito, per i canoni dell’epoca, ma disoccupato e sfaccendato, o forse semplicemente amareggiato per la costrizione dovuta al suo stato; il vecchio zio scapolo Pasqualino, ospite pagante della casa; la figlia Ninuccia, costretta al matrimonio “di convenienza” con Nicolino, date le floride condizioni economiche del consorte, e che però ama segretamente il giovane Vittorio, con il quale progetta la fuga amorosa.
Tutti i personaggi, per caso o per precisa volontà, vengono ai ferri corti il giorno di Natale, sullo sfondo del Presepe in festa che celebra la Sacra Famiglia assistendo come un monolite al disfacimento della famiglia non tanto sacra di casa Cupiello; si scoprono gli altarini, il rendez-vous di tutti i personaggi porta ad una tragedia familiare, e che scandisce però la fine di un modo ipocrita, cieco e ottuso di essere e forse, chissà, ad un rinnovamento necessario dei rapporti umani, per quanto traumatico. Insomma, assistiamo ad una autentica pastorale napoletana, un antesignano misconosciuto, di molto in anticipo sui tempi, se pensiamo che solo oltre mezzo secolo dopo Philip Roth mieterà allori, conquistando tra l’altro l’ambito Premio Pulitzer per la narrativa con la sua “Pastorale Americana”, l’opera notissima in cui il protagonista cerca in tutti i modi di tenere assieme quel che resta della propria famiglia, cercando finanche di riportare una propria figliola insofferente alle regole nell’ambito familiare.
Il lavoro di Eduardo, in epoca non sospetta, racconta le stesse vicende.
Luca Cupiello malgrado si sforzi di non sapere, sebbene si ostini a negare l’evidenza, anche se non vuole assolutamente accorgersi dello sfibrarsi dei legami che tengono uniti tra loro i vari membri della sua famiglia, si rende conto perfettamente di cosa accade nel suo microcosmo, appunto perchè è il suo mondo, lo ha creato lui. Ma preferisce applicarsi alla creazione di una realtà ideale e fittizia, il Presepe. Luca Cupiello vede perfettamente l’indolenza, il menefreghismo, la strafottenza del suo unico figlio maschio, è a chiunque comprensibile che il giovane, privo di mezzi, senza lavoro, si arrangia come può alla meno peggio, rubacchiando in casa ai propri congiunti per un minimo di spazio personale: avrebbe bisogno di ben altro, di attenzione ed empatia invece della continue e schizofreniche richieste di apprezzare il Presepe, mostra perciò tutta la sua insofferenza negando, non può in alcun modo essergli gradita la rappresentazione di una felicità alla quale egli non è partecipe.
Come insofferente è la moglie Concetta: anni di privazioni e rinunce ne hanno logorato la fibra, ha riposto ogni speranza di un minimo di serenità nei figli, restandone disillusa, e di nessun aiuto le è l’uomo di casa, che, come un bambino, non vuole vedere quanto lo infastidisce, chiede le ragioni del malessere che sente in casa e si accontenta di una risposta “…niente, è niente” che lo autorizza implicitamente a scrollarsi di dosso pesi e responsabilità della gestione familiare.
Dopotutto il nodo centrale della vicenda è Ninuccia, che semplicemente vuole mettere fine ad una unione disgraziata, che non va e non ha mai funzionato, ma i tempi e soprattutto la morale corrente non permettono, è fuori questione, è peccato mortale per Dio, per lo Stato, per gli uomini, e per i genitori. Di cosa tratta allora in definitiva questo libro? Perché è un bel libro, giacché ogni opera d’arte, prima di essere messa in scena su un palcoscenico, è un racconto, un romanzo, una storia scritta.
Molto descrittiva, più di un romanzo non teatrale, ricco di dialoghi, e le emozioni sono insite nella mimica e nelle parole, non vengono spiegate, quindi la resa sulla carta è ottima se chi scrive, prima ancora di essere un drammaturgo, è un bravo scrittore. E Eduardo lo è, e semplicemente, come lui stesso ebbe modo di affermare, egli riporta e recita tutto quanto l’uomo comune realmente compie, dice, pensa ogni giorno nella vita reale. Ed una cosa che gli uomini fanno spesso è illudersi, a dispetto di tutto. Il tema centrale di questa commedia non è il Natale, non il Presepio, non la famiglia, ma è ben altro: è l’illusione. Il non voler vedere per quieto vivere, il volgere lo sguardo da un’altra parte, il non rendersi conto che l’esistenza di qualsiasi individuo necessita di libero arbitrio, di crescita individuale, di cadere e rialzarsi, di cambiare, di mutare, di adattarsi alla realtà senza pretendere che la realtà si adatti a noi. La nostra vita non è un Presepe, dove le donne vanno alla fontana a prendere l’acqua, accudiscono la casa e badano ai bambini, e gli uomini lavorano nei campi o pascolano le pecore; anche l’uomo può crescersi i figli e accudire la casa, e la donna lavorare fuori casa.
Il Bambino Gesù non resterà serafico nella mangiatoia venendo riscaldato dal fiato degli animali da stalla, ma crescerà divenendo un uomo che lascerà un segno nella storia.
La cometa non brillerà per sempre sulla capanna, ma riprenderà il suo corso celeste.
Invece Luca Cupiello si illude, compie l’errore che troppi gli uomini compiono: pretendono che le cose non cambino, o se cambino, lo facciano come dicono loro. Insiste nel fare il Presepe, si illude che tutto vada bene, resti cristallizzato come desidera lui nel suo personale presepe di famiglia.
Certi uomini non se ne rendono conto che, per cambiare le cose, serve cambiare sé stessi, il che significa evolvere, crescere, svilupparsi, maturare, affrontare gli eventi: un Presepe statico è un simbolo, un ricordo, che deve farci da monito e sprone, non altro.
Dopotutto, questo lo dice anche Gesù: aiutati, che Dio ti aiuta.




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Sempre recensioni esaustive, Bruno!
Commedia molto bella, come anche altre del grande Eduardo.
In risposta ad un precedente commento
Bruno Izzo
04 Aprile, 2021
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Mi sembrava adatta, dato il periodo! Buona Pasqua!
Ciao Bruno, ottimo commento.
In risposta ad un precedente commento
Bruno Izzo
05 Aprile, 2021
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Grazie mille! Un modo come un altro per porgere i miei auguri a tutti qui sopra! Un caro saluto!
BRUNO, me piace o’ commento!!!
Bravissimo, lettura interessante e commento argomentato
In risposta ad un precedente commento
Bruno Izzo
06 Aprile, 2021
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Grazie, sorella! Te piace o' presepe, eh! Un carissimo saluto!
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