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Antigone. Una riscrittura
 
Antigone. Una riscrittura 2021-02-01 09:59:11 antonelladimartino
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Stile 
 
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Contenuti 
 
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antonelladimartino Opinione inserita da antonelladimartino    01 Febbraio, 2021
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Non ci sono dèi, Ismene.

Ci sono forme narrative talmente feconde che sembrano architettate su misura per le successive contaminazioni; tra loro ricordiamo il mito, la leggenda, la fiaba. La tragedia greca classica, quasi immortale nella sua universalità, purificatrice grazie alla mimesi delle passioni pericolose, si può considerare portatrice sana di reincarnazione: Antigone, simbolo femminile di risolutezza ed eroismo, si conferma tra le icone più vitali di quest’arte antichissima.

In questa riscrittura, la catastrofe incombe fin dalle prime battute, implicita come l’aria. In questa riscrittura, non ci sono dei, non ci sono trascendenze. C’è il sacro, che implacabile e immanente scolpisce il principio di cui si nutre la giustizia autentica, superiore alle leggi, alle parole, alla spada.

Antigone, che conosce il sacro e incarna il principio, è una forza della natura in grado di oscurare il sole. La giustizia si manifesta in lei come amore libero e assoluto, tanto forte da smuovere la terra e il tuono. Un amore così non può escludere, non può scegliere, non può dar vita a una relazione. Un amore così, per esprimere la sua completezza, deve diventare sacrificio.

La ferocia di Creonte, il re, in confronto all’integrità di Antigone appare meschina, goffa nella sua crudeltà. Il potere di Creonte è fondato sul dolore, incatenato alla spada, succube del terrore, avviluppato da una logica fallace, perduto nella confusione delle parole. Creonte uccide per confermare la propria esistenza, distrugge la vita nel tentativo di dominarla. Creonte, che crede nella legge della spada, rappresenta un potere che riconosciamo bene nel nostro presente: il potere più fragile che esista.

Creonte mi ha ricordato tutt’altra incarnazione del potere, talmente pervasiva che obbliga non soltanto a obbedire o a credere, ma a essere. Questo potere, fondato sulla forza sovrumana del “solipsismo collettivo”, si costruisce attraverso una narrazione che si beffa della logica e rende sacro l’odio, consentendogli di assimilare perfino l’amore. Mi riferisco a O’Brien, l’indimenticabile aguzzino di George Orwell, incastonato nel totalitarismo di Millenovecentottantaquattro. Un altro tempo, un altro mondo, molto lontano. Eppure, il confronto mi pare irrinunciabile.

Antigone e Creonte sono gli estremi che dominano l’opera di Daniele Sannipoli, tessendo una tensione che, come di norma accade, suggerisce simmetrie inquietanti. Anche l’amore di Emone arriva al sacrificio, ma è limitato dalla scelta, quindi non può spezzare l’implosione finale. E Tiresia arriva tardi.

Una riscrittura confezionata con parole che cantano il ritmo della recitazione, in cui non si può percepire, ma soltanto immaginare, la pignoleria appassionata dell’autore.

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Commenti

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Grazie Antonella, molto bella questa tua analisi dei personaggi ;)
Grazie a te, per aver affrontato un tema impegnativo.
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