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Il daimon di Simone Weil
Avverto una certa difficoltà nel tentare di recensire, in così breve spazio, non solo una pensatrice eccezionale quale è stata Simone Weil, ma anche un lavoro così ermeneuticamente complesso come “Venezia salva”, unico testo teatrale scritto dall’autrice, per di più rimasto incompiuto. Comprendere “Venezia salva” significa cogliere il fondo solido su cui si innesta una riflessione filosofica tesissima, che ha accompagnato Simone Weil per tutta la vita, dalla celebre analisi dell’Iliade come “poema della forza” alla discesa della Weil stessa in fabbrica, per lottare a fianco degli operai, per sentire su di lei, malata di tubercolosi, il peso della fatica.
Non credo sia un caso che Simone Weil abbia scelto, per una delle sue pochissime opere di non-saggistica, la forma del testo teatrale, perché sulla scena, prima ancora che nell’intreccio del romanzo, la voce dei personaggi può trovare la purezza della parola, l’intensità assoluta e perentoria di un sentimento che dalla pagina si fa carne viva. Il teatro permette all’autrice di purificare il testo dai dettagli inutili, da quelle concessioni inevitabili che un romanziere deve fare alla narrazione: alla Weil non interessa descrivere, ma soltanto gridare con la massima risolutezza. Così, leggere “Venezia salva”, col suo quasi fastidioso alternarsi di brani compiuti e lunghi intermezzi riassunti alla svelta, diventa uno strumento potentissimo per toccare la volontà di fuoco, il daimon poetico, della Weil: un daimon che non concede nulla alla prosaicità e che anzi la costringe alla contrazione per librarsi solo laddove l’urgenza espressiva non ammette replica. E su questa scorta si capisce anche perché la Weil non fu in grado di terminare l’opera: perché completarla avrebbe significato tradire la sua più propria volontà. Quello che ci resta è un’opera di ermetica concentrazione, capace di generare fastidio proprio perché là dove è compiuta, si presenta straordinariamente levigata e lirica e il lettore avverte quasi rammarico per le parti che invece non hanno goduto di tale attenzione.
La storia ci viene già raccontata nelle primissime righe: è quella di una congiura ordita dagli spagnoli per conquistare e assoggettare Venezia, destinata a fallire per il tradimento Jaffier, un congiurato che per un istante è in grado di vedere e contemplare la bellezza di Venezia. È la città lagunare, brillante e tersa, magnifica negli occhi di Violetta, il polo femminile dell’opera, a colpire Jaffier con l’evidenza che nessuna sete di potere, nessuna volontà della forza può giustificare la distruzione di questo gioiello. Come in Dostoevskij, è la bellezza che salva il mondo perché solo vedendo la bellezza, l’uomo può non cedere ai suoi istinti. Eppure la denuncia di Jaffier condannerò a morte i suoi compagni, accusati di tradimento: l’atto di pietà di Jaffier, l’atto di luce che deve redimere il mondo, si scopre essere la condanna a morte di altre persone. In questa insoluta aporia sta il dramma della Weil, che sa portare sulla scena un’opera tragica nel senso più proprio del termine: uno scontro tra forze uguali e contrarie, ugualmente giuste. E mi ricorda quella celebre frase di Goethe, “sono una parte di quella forza che eternamente vuole il male ed eternamente compie il bene”, perché nella Weil il confine tra Cristo e Lucifero non è masi stato così sottile.
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