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Miti e figure di Antigone
È difficile scrivere di un’opera così fortunata come l’”Antigone” di Sofocle senza accennare, almeno brevemente, ad alcune delle letture più significative che ne sono state fatte, eppure mi propongo con questa recensione di scrostare, pur solo in parte, il peso delle sovrastrutture che, a mio avviso, ne hanno tradito la natura. Il problema è che per noi moderni il teatro greco classico è, in fondo, un genere letterario, come la lirica, il poema epico, il romanzo. Eppure il teatro ateniese prima di essere poiesis, creazione artistica, è praxis, agire del cittadino: il teatro è politica e da questa non si può scindere. Non è un caso che caduta Atene, anche il teatro cesserà di esistere nella forma perfetta cui Euripide, Sofocle ed Eschilo lo hanno portato. In secondo luogo, come sottolineato da Aristotele, l’effetto emotivo che l’opera suscita nel cittadino-spettatore è un elemento del tutto secondario per valutare la bontà della stessa: precetto questo molto distante dalla poetica romantico-ottocentesca di cui siamo eredi. E terzo aspetto che vorrei sottolineare, i personaggi del teatro greco si muovono in un universo di valori solido, distanti da quello “strappo” di amletica memoria che fa collassare il mondo in un dilemma irrisolvibile. Tutte queste premesse sono essenziali, a mio avviso, per capire che fare di Antigone l’eroina che lotta un potere cieco, crudele e sordo in virtù di un coraggio superiore è, almeno in parte, una mistificazione e come volerla erigere a paladina del femminismo contro lo strapotere del maschio sia una stortura tanto arbitraria quanto filologicamente inappropriata. Tutto questo è ancora più significativo se si considera che mentre un’opera come l’”Edipo Re”, la tragedia della conoscenza, ben si presta a una lettura più soggettiva, nell’”Antigone” il dramma è tutto sulla scena pubblica e tanto più efficace perché, credo, per Sofocle entrambe le posizioni sono valide: Creonte, re di Tebe, deve governare e per governare deve far rispettare le leggi anche quando queste appaiono crudeli o ingiuste, Antigone ha il diritto di seppellire il fratello. In fondo vietare la sepoltura di Polinice, che ha assediato la città per ottenere il potere, per l’utilità di Stato è giusto e coerente. Dall’altro lato Antigone sente impellente il bisogno di seppellire Polinice per una legge non scritta, una legge degli dei che ritiene superiore alla ragione di Stato, ma non lo fa perché Polinice è un uomo e dunque di per sé degno di sepoltura, ma lo fa perché Polinice è suo fratello. Anzi c’è una frase terribile che Antigone pronuncia e che molti commentatori forse non considerano abbastanza: parlando del perché senta il bisogno insopprimibile di seppellire il corpo, sostiene che:
“Non avrei affrontato questa fatica, non avrei agito contro la città, per un figlio o per un marito. Perché dico così? Per quale legge? Se mi fosse morto un marito, avrei potuto averne un altro. O fare un figlio con un altro uomo, se avessi perso il figlio che avevo. Ma mia madre e mio padre ormai sono morti, e un altro fratello non potrebbe più nascermi.”
Sono versi a loro modo tremendi che un fine interprete come Goethe addirittura volle espungere non volendo accettare che in fondo Antigone si muove in un orizzonte di valori distante dal nostro e che decide di agire dopo aver soppesato la gravità della perdita: un figlio potrebbe riaverlo, un marito potrebbe riottenerlo, ma il fratello no, perché i genitori sono morti. Ecco che allora Antigone agisce non per pura volontà di difendere la famiglia, di salvare il sangue, ma per azione in funzione di una norma, di un principio, così stridente per noi moderni. La verità è che l’”Antigone” non è né la tragedia hegeliana della famiglia contro lo stato, né quella goethiana dell’eroina contro il tiranno, né ancora quella misterica di Hölderlin che vide in Creonte il principio organizzatore del disordine di Antigone: questa è la tragedia di due principi che si scontrano nella loro legittimità e che sono, ognuno a suo modo, validi: che cosa succederebbe allo Stato se tutti si sentissero in diritto di violare una norma, che cosa succederebbe ad Antigone se cedesse sul fratello? In questa drammatica incomunicabilità, in questa impossibilità della sintesi, sta l’infinita e sublime forza drammatica di questa tragedia che ci ha consegnato alcuni dei cori più belli della letteratura e alcune delle pagine più intense che il teatro abbia scritto.
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Non si potrà dire che in questa tua recensione c'è tutto (per le maggiori opere del teatro greco sarebbe impossibile), ma c'è sicuramente tanto, e disposto in modo che sia piacevole e soddisfacente leggerti.
Anche per me, lontano dalla tragedia classica da tanti anni, segnalazioni come questa invogliano a ritornarci. Complimenti, Daniele.
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“Nell’Antigone v’è un passo che mi è sembrato un difetto, e per il quale non so che cosa darei se un filologo capace ci dimostrasse che è stato inserito in un secondo tempo e che non è autentico. Infatti, dopo che, nel corso della tragedia l’eroina ha superbamente esposto le ragioni della sua condotta rivelandoci tutta la nobiltà e la purezza della sua anima, alla fine, quando sta avvicinandosi alla morte, adduce a propria giustificazione un ulteriore motivo che è davvero pessimo e rasenta il ridicolo [das Komische]. Dice che quel che ha fatto per suo fratello, non l’avrebbe fatto per dei figli, se fosse stata madre, e nemmeno per un marito. Infatti – dice – se mi fosse morto il marito avrei potuto risposarmi, e se mi fossero morti i figli ne avrei potuto mettere al mondo altri con un nuovo marito. Ma con mio fratello è un’altra cosa. Non posso riavere un fratello perché mio madre e mia madre sono morti e dunque non c’è nessuno che potrebbe generarlo. Questo è almeno il senso nudo di questo passo, che sulle labbra di una eroina condotta a morte, altera secondo me l’atmosfera tragica [tragische Stimmung] e mi sembra troppo ricercato oltre che troppo simile a un calcolo dialettico [dialektischer Calcül]”