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VIVERE IL VANGELO ALLA LETTERA
Il dramma (incompiuto) di Tolstoj, uno dei pochissimi testi teatrali da lui scritti nel corso della sua lunga carriera artistica, narra la vicenda di Nikolaj Ivanovic Saryncev, un possidente terriero con moglie e sette figli, il quale ad un certo punto, attratto dal messaggio del Vangelo, decide di spogliarsi di tutti i suoi beni per donarli ai poveri. Nel primo atto – il migliore, anche se di chiaro intento didascalico – il suo trasgressivo atteggiamento si scontra con quelli, ovviamente opposti, dei familiari, degli amici e delle stesse istituzioni religiose, costringendo il lettore/spettatore a prendere posizione sui delicatissimi temi in discussione: in particolare, se le parole di Cristo debbano essere prese alla lettera e seguite fino alle estreme conseguenze, in una ricerca della perfezione e della santità che possa, per così dire, portare il Paradiso in terra, o se invece debba fare fede la posizione meno rivoluzionaria e socialmente più accettabile della Chiesa secondo cui la ricomposizione delle disuguaglianze e delle ingiustizie, imperscrutabilmente assegnate e volute da Dio nella nostra vita terrena, potrà avvenire solo nell’aldilà. Non sono certo questioni che riguardino solo le miserevoli condizioni dei servi della gleba della Russia ottocentesca di Tolstoj, in quanto la situazione dei ricchi proprietari fondiari che vivevano del lavoro mal retribuito dei loro contadini non è in fondo dissimile da quella degli opulenti Paesi occidentali che nel globalizzato e civilizzato XXI secolo assistono con indifferenza alla morte per fame di milioni di persone del Terzo Mondo. Cosa fare quindi di fronte al Discorso della Montagna o al detto che “è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel Regno dei Cieli”? La nostra posizione oscilla in fondo tra quella – mistica e fanatica – di Nikolaj e quella – maggiormente umana e di buon senso – della moglie Marja, e la loro dialettica contrapposizione provoca un disagio tale che è quasi una paradossale ammissione della profonda, reciproca inconciliabilità di Dio e del mondo.
Alla fine Nikolaj è costretto a cedere alle pressioni delle persone che lo circondano e a firmare la cessione della sua proprietà alla moglie. Da questo momento – che segna una sorta di parallela diminuzione dell’interesse del testo, in quanto a prevalere ora è un’atmosfera patetica e melodrammatica che trova il suo climax nel conclusivo colpo di pistola con cui la principessa Ceremsanova uccide l’uomo colpevole con le sue idee di aver rovinato la vita del figlio – Nikolaj è costretto ad assistere impotente allo sgretolamento dei suoi ideali: non può più aiutare i contadini cedendo loro la terra, i suoi tentativi di vivere del lavoro delle sue braccia si scontrano con la sua ridicola incapacità nelle attività manuali, e perfino la sua fuga notturna per andare a vivere in mezzo al popolo è fatta fallire dall’intervento di Marja. Anche i suoi discepoli subiscono una analoga sorte: Boris viene rinchiuso in un manicomio per aver rifiutato di prestare il servizio militare, il giovane prete Vasilij abbandona la tonaca ma poi è costretto a subire l’umiliazione di tornare sui suoi passi. E’ chiaro che in questa religiosità radicale e senza compromessi Tolstoj ad un certo punto della sua vita abbia visto una possibile soluzione ai dubbi che lo tormentavano. Anche se “Svet” non può essere considerata un’opera autobiografica, appare chiaro come Tolstoj abbia messo molto di se stesso nel personaggio di Nikolaj, e il suo fallimento – pur ragionevole e addirittura auspicabile sotto la maggior parte dei punti di vista, non ultimo quello del toccante personaggio di Marja, a cui va da subito la simpatia del lettore – debba aver costituito in un certo senso anche il fallimento dello scrittore.
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