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MORTE DEL SOGNO AMERICANO
Chi è Willy Loman? E’ solo il commesso viaggiatore che, dopo una vita di duro lavoro all’inseguimento del successo e della ricchezza, è costretto, alle soglie della vecchiaia, a constatare amaramente il proprio fallimento, oppure è il rappresentante di una categoria umana più vasta? Arthur Miller, pur senza voler fare nel suo testo una critica sociale di stampo brechtiano, propende sicuramente per la seconda risposta, una risposta che, per la modernità dell’opera, coinvolge direttamente anche noi lettori/spettatori contemporanei. Loman sarebbe cioè una figura archetipica, espressione di un sistema di valori che esalta il successo individuale come unico scopo della vita e unico mezzo per raggiungere la felicità, un sistema su cui si è imperniato nel secolo scorso il mito dell’”american way of life” e del “self made man”, ma che oggi, in un’economia sempre più globalizzata e consumistica, ben può essere esteso a qualsiasi società capitalistica occidentale. Loman è quindi l’uomo medio che antepone ad ogni considerazione etica e spirituale la realizzazione (economica e materiale) di se stesso e dei propri figli, e che giudica la bontà della propria vita esclusivamente secondo il metro di questi valori. Egli è non a caso un commesso viaggiatore, cioè un venditore, un uomo che è abituato a dare un prezzo ad ogni cosa: in una società mercificata, egli stesso diventa una merce, e questo processo di reificazione (che altro non è se non un’equivalente della alienazione marxista del proletariato) si spinge a tal punto che, quando Loman vede crollare sulla sua testa il mondo per cui aveva combattuto tenacemente per decenni, egli ricorre all’ultima cosa in suo possesso che gli permetta di credere di valere ancora qualcosa, anche se paradossalmente a costo della sua stessa vita: la polizza assicurativa stipulata anni prima per garantire alla famiglia un indennizzo nell’eventualità della propria morte.
“Morte di un commesso viaggiatore” è un’opera profondamente tragica, non solamente perché si conclude con un suicidio e, soprattutto, non nel senso classico del termine. Se nella tragedia classica, l’eroe soccombeva, dopo una strenua lotta, di fronte a qualcosa troppo più grande e forte di lui (ad esempio il fato), nel dramma milleriano la dimensione è infatti molto più mediocre, in quanto Willy Loman è vittima di un sistema di cui lui è sostanzialmente, pateticamente, connivente. Egli non giunge mai, nemmeno in punto di morte, a prendere coscienza di un meccanismo perverso che spreme gli uomini fintantoché sono in grado di assicurare profitti e li getta via come stracci quando invece non servono più. Il suo suicidio non è affatto un gesto di estrema ribellione, ma solo uno stratagemma per permettere ai figli di realizzare, grazie all’indennizzo assicurativo, quello che non è riuscito a lui. Il sistema rimane così sostanzialmente assolto, immune com’è da ogni messa in discussione dal suo interno (e questo chiama in causa un’altra problematica, quella del conformismo, evidenziato dall’ossessione di Loman di piacere alla gente).
Loman è un personaggio dalle mille sfaccettature, volta a volta euforico o depresso, mite o arrogante, orgoglioso o umiliato, energico o allo stremo delle forze, lucido e calcolatore o vaneggiante come un demente. Per la sua complessità, oscillante tra humour e dramma, è’ senza dubbio uno dei più straordinari personaggi della storia del teatro, e non stupisce che ad interpretarlo, sulle scene teatrali così come davanti la macchina da presa, siano sempre stati attori di grande carisma, come Lee J. Cobb, George C. Scott, Frederic March, Dustin Hoffman e, in Italia, Paolo Stoppa ed Eros Pagni.
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