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ASPETTANDO IL MARCHESE
In un delizioso giardino settecentesco, tra bianche panchine, statue di marmo e cinguettii di uccelli, i sei personaggi femminili di “Madame de Sade” non fanno altro, per tre lunghi atti, che mettere in scena un’assenza, quella del “divino marchese”, continuamente evocandolo nelle loro conversazioni, allusioni e ricordi. Appare subito chiaro che Sade è una figura simbolica, uno stratagemma narrativo (vagamente simile al Godot beckettiano) il quale, grazie alla sua componente mitica, fa agire e interagire, come in un laboratorio in vitro, le sei donne, mettendone in luce le più recondite inclinazioni. Come un dio blasfemo e nefando ma oscuramente pieno di fascino, Alfonse riverbera su di esse il suo influsso, apparentemente identico eppure per ognuna così diverso e personale: la suocera lo demonizza anche se non esita ad aiutarlo per salvare l’onore della famiglia o a sfruttare la sua nuova reputazione per sopravvivere alla Rivoluzione, la moglie lo sublima rimanendogli fedele e sforzandosi di elevare la propria virtù, novella Justine, all’altezza (o meglio sarebbe dire alla bassezza) della sua depravazione, la baronessa di Simiane lo espunge dalla propria vita attraverso la sua scelta monastica, la contessa di Saint-Fond diventa invece un suo vero e proprio alter ego al femminile. Se a prima vista è Sade a vivere esclusivamente nell’immagine e nelle parole delle sei donne, in realtà sono queste ultime a trovare la propria ragion d’essere nel marchese, come ben comprende Renée quando dice, quasi parafrasando Flaubert, “Alfonse sono io”.
“Madame de Sade” è una “conversation piece” astratta e stilizzata, in cui Mishima assegna ad ogni personaggio, didascalicamente, una precisa connotazione caratteriale. Anche la differenziazione stagionale dei tre atti (estate, autunno e inverno), richiamando le tre diverse età della vita, è perfettamente conforme a una lettura simbolica della commedia, la quale trova il suo coronamento nel paradossale rifiuto finale di Renée di incontrare, dopo ben diciannove anni di attesa, il marito appena uscito di prigione, quasi a voler rivendicare con questo gesto proto-femminista (e con la successiva scena in cui le donne giocano tra loro tirandosi le palle di neve) la raggiunta e auspicabile autonomia dell’universo femminile nei confronti di quello maschile.
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