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ANGELI A NEW YORK
“La vita è un baratro di orrori”, dice il cinico avvocato Roy, uno dei protagonisti del fluviale dramma di Tony Kushner, vincitore del Premio Pulitzer nel 1993. In effetti di orrori, in questa dolente ballata di fine millennio (è ambientata nel 1985 dell’America di Reagan), se ne vedono molti, dall’AIDS allora quasi sconosciuto al buco nell’ozono, che accomunano il pianeta Terra e l’umanità che lo abita a una situazione apocalittica da fine del mondo. La malattia e il disastro ambientale appaiono però solo gli effetti ultimi di una degenerazione che sta ben più a monte e che ha incrinato le basi del vivere umano: l’amoralità diffusa, la crisi dei rapporti di coppia, la perdita delle origini, il disorientamento a 360 gradi (sessuale, razziale, etico, religioso, politico) che ne deriva. Non è un caso che i personaggi del dramma vengano visitati in continuazione dai fantasmi del passato (le fotografie degli abitanti di un villaggio ebreo della Lituania di inizio ‘900 evocate dal rabbino, gli antenati di Prior), quasi a denotare la colpevole nostalgia di un “prima” (che è anche, guarda caso, la traduzione del nome del protagonista) che è stato colpevolmente tradito, e che ora viene a prendersi la sua rivincita. Accanto ai fantasmi, vi sono gli angeli, come quello che nella scena finale della prima parte (che sembra prefigurare il crollo del muro di Berlino) appare folgorante dalle macerie, ma non si riesce a capire se sono angeli di salvezza o di castigo. L’io dei personaggi si proietta spesso in sogni di palingenesi, ma questa è solo una fuga dalla cruda realtà, sia essa l’alienazione mentale di Harper (che con l’aiuto delle pastiglie di Valium si rifugia in un improbabile Antartide) o la malattia di Prior (il delicato sogno del ballo-riconciliazione con Louis si infrange contro un solitario risveglio).
“Angels in America” è stato definito – forse con un po’ d’esagerazione – “una Divina Commedia per un’età laica e tormentata”. C’è forse in Tony Kushner più Don De Lillo (nella sua ansia onnicomprensiva di voler tutto inglobare, personaggi realmente esistiti e personaggi di fantasia, per fare il ritratto di un’epoca) che Dante Alighieri, ma questo non vuol dire voler sminuire un testo che è eccitante e ricco di fantasia e di visionarietà. L’omosessualità esibita (il sottotitolo dell’opera è “fantasia gay su temi nazionali”), più che una provocazione fine a se stessa, è uno specchio deformante che permette di accentuare la solitudine, la paura, lo smarrimento e i rimorsi di personaggi che, dopo la sbornia della liberazione sessuale, dell’autodeterminazione, dello yuppismo e del liberismo, dimostrano di non essere più in grado di affrontare neppure i più elementari rapporti umani.
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Certamente concordo con la tua analisi, Giulio. Le sbornie culturali-ideologiche rischiano di lasciare solo cocci o cenere.
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