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Dopo il fuoco, il disicanto
Qualche utente ricorderà forse una mia recensione di qualche mese fa sull’allucinazione metafisica del Woyzeck di Buchner, straordinaria opera capace di precorrere la forza violenta e divampante dell’espressionismo quando ancora è il 1837, anno in cui l’autore muore ad appena 23 anni. “La morte di Danton”, sua prima prova letteraria, si pone in diretta continuità con l’esperienza biografica di Buchner, autore di un pamphlet rivoluzionario, “Il messaggero d’Assia”, che animò una rivolta poi duramente repressa nel sangue. È proprio la delusione di questa esperienza, il trauma lacerante del sangue versato e delle vite distrutte, ad animare l’abbandonato disincanto di questa opera, che nel ripercorrere la Rivoluzione Francese non solo ricostruisce un immane dramma politico, ma anche riflette sulla vacuità delle azioni umane, sul loro rimpicciolirsi come ombre evanescenti sullo sfondo di un tempo rispetto a cui tutto collassa in nichilistica rassegnazione. Danton, alter ego di Buchner, animatore della Rivoluzione, affronta le conseguenze degli eventi che lui stesso ha messo in moto, il Comitato di Salute Pubblica, il Terrore, la lama inflessibile della ghigliottina. Mentre una luce sinistra ed enigmatica illumina la scena in un clima di violenza crescente, il teatro si fa dramma della parola, tragico perché inconciliabili sono le posizioni che si oppongono. Buchner conosce molto bene la lezione dei classici e quella di Shakespeare e nei suoi personaggi, dall’apologia di Danton, divorato dai suoi stessi figli, ai deliri intransigenti di Robespierre e Saint-Just, che animati da una purezza disumana, cedono alla fretta di una soluzione fatale, si compie la parabola disillusa della sua stessa vita. Il ritmo del dramma, ineluttabile come lama di quella ghigliottina che è lo spazio centripeto di tutta la scena, si costruisce di agili battute pregnate da sensuale ironia e di lunghi discorsi retorici che ricalcano la verve della prosa ciceroniana. Come Catone, Cicerone e Catilina, così Danton, Robespierre e Sain Just tentano di colmare il diaframma atroce tra l’ideale e il reale. La vanità delle azioni umane, la logica fredda del potere, il senso imminente della fine e gli amori spezzati scavano a fondo nell’uomo e tentano di rispondere ad un’unica domanda: cos’è che in noi ruba, mente e uccide?
Rispetto al Woyzeck, tragedia per frammenti, fatta di detriti e allucinazioni, La morte di Danton ha ancora una struttura classica, ma già si avverte la tensione tra il realismo brutale, di stampo naturalista, e la violenza dei sentimenti, il dramma degli uomini, di ascendenza romantica, fino al suono dodecafonico del novecento. In questo dramma, scritto negli anni ’30 dell’Ottocento, in appena 5 settimane, si apprezzano, in nuce, tutti gli sviluppi della letteratura successiva nonché i meravigliosi ascendenti teatrali che hanno guidato l'autore, da Seneca a Shakespeare. In effetti Buchner riflette, condensa e anticipa secoli di letteratura e lo fa, al solito, con la pace miracolosa di chi governa i suoi personaggi e ha in pugno la scena. Perché Buchner, come Danton è consapevole che tutto il dramma, tutta l’emozione, non è altro che un’increspatura microscopica nell’oceano eterno del tempo. Peccato che tutto quello che ha scritto stia in appena 300 pagine, peccato davvero, forse oggi sarebbe nell’olimpo dei grandi scrittori, a parlare amabilmente con Goethe. Forse l’opera soffre di una certa verbosità, ma io, a dirla tutta, gli perdono ogni difetto.
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