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Rosso di sangue e di vino
Grande peso sulla valutazione del teatro di Euripide ha avuto il secco giudizio nietzschiano che, proprio nell’ultimo dei grandi tragediografi dell’età classica, vide il tramonto di un genere, quello del teatro, che viveva, a detta del filosofo, della tensione tra la forma dell’apollineo e il caos del dionisiaco. In Euripide, certo, i personaggi si scoprono profondamente umani e fragili, vivono di passioni e dolori struggenti e proprio per questo è forse oggi il più amato dei drammaturghi greci. Il tragico in Euripide non è più nelle antitesi esasperate tra visioni inconciliabili, ma nel dramma delle piccole, grandi cose del quotidiano. Segno di questo è lo spazio che Euripide riserva al coro: se in Eschilo al coro spetta il 50% delle battute, in Euripide la quota scende al 20%. Eppure queste Baccanti, scritte dal poeta in tarda età, rivelano un dramma di inaudita potenza espressiva, animate da un fuoco misterioso e violento che illumina personaggi ambigui e smaniosi. Un teatro che, al contrario di altre opere dello scrittore, si scopre inconciliabilmente tragico.
Protagonista assoluto Dioniso, rosso, rubicondo e rubensiano, animato di sangue e di vino, principio irrazionale che crea e distrugge con un gesto. Gli fa da controcanto Penteo, re di Tebe, ingenuo e socratico difensore della razionalità, dell’ordine, della chiarezza del reale. Tutto in questo dramma è doppio e barocco, mutevole e illusorio, perché Dioniso è dio della maschera, spazio in cui gli opposti si incontrano e dissolvono. Dioniso che appare come un uomo, straniero orientaleggiante, femmineo, quasi androgino, seducente e misterioso, esemplificazione di un’ambiguità che la giovane età spesso impone di fronteggiare, così come Penteo deve fare nel corso della tragedia. Lo stesso Penteo che sarà travestito da donna, che da predatore sarà fatto preda, smembrato e vivo solo nel momento in cui i suoi brandelli, il suo sangue, torneranno alla natura.
A tenere il ritmo del dramma la follia che Dioniso, l’irrazionale, instilla negli uomini, il sesso orgiastico, in cui la differenza si annulla, la danza e l’ebbrezza, fuga dal pensiero, che riportano l’uomo alla terra. È in questa tragedia che il razionalismo di Euripide inizia a sfumare nel pessimismo; e se è vero che Socrate, suo amico allora sedicenne, esprime una visione ottimistica della realtà fondata sul raziocinio, la coerenza infaticabile di Euripide e la sua più lunga vita disgregano questa certezza granitica in un continuo questionare se stessi il cui esito è inevitabilmente una verità di per se stessa aporetica, ma non per questo meno dura. Le divinità sono distanti, l’uomo è catapultato in una dimensione in cui l’unica contemplazione possibile è quella della sua irrimediabile solitudine, angosciata da uno scontro senza esclusione di colpi con se stessi. E paradossalmente proprio questo Dioniso fatto uomo non riduce la potenza del dramma, ma anzi la incrementa dell’attesa dell’epifania conclusiva, la condisce col gusto amaro di una conoscenza superiore, con l’apprensione palpitante di un personaggio dal destino già segnato.
Al termine della vertiginosa stagione creativa del teatro greco, Euripide plasma una tragedia densa, misteriosa, primigenia, per così dire, mediterranea e sanguigna, sublimando nell’illusione tragica, così apertamente manifesta nell’opera, la trama di eventi misterici, quasi d’iniziazione. E proprio in questa riflessione sulla tragedia, in quest’ultimo manifesto di una cultura sapienziale ellenica che la stagione filosofica successiva adombrerà col suo razionalismo, il dio della tragedia, del ditirambo, del vino, della sapienza e dell’illusione si fa personaggio, emblema di una poliedricità che l’opera non manca di suggerire, ora confondendo, ora chiarendo in improvvisi sprazzi di lucida, quanto brutale, follia.
Perché alla fine, Dioniso, e con lui la vita, è sempre al di là del bene e del male. La verità è la roccia e la roccia è muta. Misterioso, difficile e criptico questo Euripide, ma di una bellezza disarmante che non posso non consigliarvi.
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Commenti
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Grazie, segno e spunto!
Forse faccio qualche recensione sui classici greci che non fa mai male! Una volta ero fissato...
Dany, come di consueto, una recensione molto interessante, colta.
Avevo letto quest'opera tanti anni fa in lingua originale, con tanto di minuziosa traduzione dal greco.
La fine del povero Penteo è a dir poco sconvolgente!
Ferruccio
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