Dettagli Recensione
Una amara profezia
Premetto -e questa vuole essere una resa incondizionata a Benjamin- di non avere la cultura filosofica necessaria per sviscerare un’opera come questa, tanto breve e fulminante, quanto oscura e sfuggente, meditata, sofferta, imprescindibile, eppure avverto l’imperativo morale di parlarne, tanto credo sia profetica sulla società contemporanea. Mi perdonerà, chi avrà la pazienza di leggere, la lunghezza di quanto segue: non ho saputo fare altrimenti.
Intanto: Benjamin non vuole scrivere una fenomenologia dell’arte contemporanea, non è uno storico dell’arte, la sua ambizione è molto più alta, fissare l’ora (Jetzt), la cifra del destino dell’arte che è intrinsecamente destino della politica. Perché il fulcro rovente di queste saggio è tutto nel rapporto fra arte e politica e sul suo riverbero, famelico o salvifico, sull’uomo. I presupposti concettuali per questa riflessione, che già nelle premesse dichiara la sua “prometeica arroganza”, sono da un lato l’estetica hegeliana e dell’altro l’avvento della tecnica.
Hegel, nel tracciare la storia dello Spirito, scopre l’arte inessenziale: l’artista, genio romantico, crea il mondo e in questo suo farsi creatore, compartecipa al miracolo di Dio. La poiesis, ovvero la produzione oggettuale di qualcosa fuori del soggetto, è un’altra onda nel mare della creazione. Eppure, per necessità dialettica, l’artista scopre che questa oggettivazione del soggetto nella forma artistica, non è “reale”, ovvero che ogni gesto artistico altro non è, se non una affermazione della propria “autocoscienza”. Ne segue che per Benjamin il valore “cultuale” dell’arte, cioè il suo essere al di là dell’uso comune, attorniata dall’aura del sacro e del mistero, è in crisi fin dal suo stesso apparire, perché l’arte si scopre umana, troppo umana e d’altronde dopo Nietzsche il fatto è stupido, tutto è interpretazione e l’intepretazione è l’arbitrio dell’autocoscienza del soggetto. Al valore cultuale si oppone il valore espositivo, l’arte resa pubblica accessibile, democratizzata (Carmelo Bene direbbe imborghesita, ma Benjamin si muove in bene altro orizzonte storico). La tensione fra valore espositivo e valore cultuale è tanto centrale da darsi, per Benjamin, nella forma della storia dell’arte. Con l’età contemporanea c’è una netta sproporzione tra i due settori: il valore espositivo, vista la riproducibilità senza discrimine dell’opera d’arte, provoca l’annullarsi del valore cultuale e la perdita dell’aura. Recuperando un’intuizione di Baudelaire, Benjamin sviluppa il tema della dissoluzione dell’aura nell’arte, laddove con aura s’intende il carattere sacrale e misterico dell’arte, il suo valore cultuale, che ricondotto alla prospettiva materialistica di Benjamin non è altro che “un singolare intreccio di spazio e tempo”. Questa affermazione richiama alla terrestrità dell’opera d’arte, al suo legame inscindibile con l’attimo che non è riproducibile, pena la trasformazione di una tragedia in commedia, dell’arte in una sua banalizzazione.
Dall’altro lato Benjamin riflette riprendendo il tema heiddegeriano della Tecnica, intesa come tempo della modernità, come nuova forma di datità della realtà. Se di fronte alle fauci della tecnica, Heidegger erra tra i sentieri della selva (Holzwege), alla ricerca di una radura dove ri-volgersi in sé, riappropriarsi del tempo della meditante attenzione, in Benjamin non c’è spazio alcuno in cui l’uomo possa farsi “pastore dell’Essere”, dove cioè la realtà possa accadere e divenire e infine il senso ultimo disvelarsi. Non c’è perché lo spazio di questo disvelamento è il Sacro (Heilige), “la traccia degli dei fuggiti”, un sacro che, traducendo, altro non è che il valore cultuale oramai (per Benjamin) tramontato. Benjamin trasla la prospettiva metafisica della riflessione heideggeriana della tecnica e del sacro, nella ben più materialistica analisi del rapporto fra arte e politica. E d’altronde fulcro concettuale dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è la prospettiva materialistica dell’arte, intesa non soltanto nell’ottica del mezzo materiale (o immateriale) della sua diffusione, ma anche nell’ottica del mezzo per la sua fruizione. Proprio la fruibilità diventa coordinata per comprendere non soltanto la massificazione della società di inizio secolo, ma anche la nascita delle nuove forme artistiche, quali cinema e fotografia, in cui l’esperienza artistica non è elitaria o individuale o gerarchicamente organizzata, bensì risulta simultanea a un gruppo esteso di persone. Eppure Benjamin ritiene che la riproducibilità abbia introdotto profonde modifiche nella natura dell’esperienza estetica non solo nel senso che essa è divenuta un’esperienza di massa, ma anche nel senso che i valori di culto tradizionalmente connessi all’arte sono decaduti lasciando il posto a nuovi valori che il filosofo definisce espositivi: la fruizione distratta, l’esteticità diffusa, il carattere effimero e sempre disponibile dell’evento estetico. Solo l’hic et nunc è rifugio dell’autenticità, il carattere di testimonianza storica, traccia della sua irripetibilità; l’hic et nunc è l’apparizione di una lontananza, di una distanza, di una sacralità perduta. “Anche nel caso della riproduzione più perfetta, manca un elemento: l'hic et nunc dell'opera d’arte. Ma proprio su questa esistenza unica, e in null'altro, si è attuata la storia a cui essa è stata sottoposta. L’hic et nunc dell'originale rappresenta l'idea della sua autenticità, e sulla base di questa, a sua volta, poggia l'idea di una tradizione. L'intero ambito dell'autenticità si sottrae alla riproducibilità tecnica.
Dopo queste lunghe premesse, necessarie per capire le conclusioni, veniamo alle conseguenze pratiche della storia, all’inesorabile avanzamento di quell’Angelus Novus, con gli occhi rivolti indietro, e le ali inesorabilmente spinte in avanti, che Benjamin ravvisò in un bel quadro di Paul Klee. L’arte contemporanea è crisi del sacro e quindi caduta dell’aura. La caduta dell’aura è choc perché rivoluziona le dinamiche di appercezione dell’opera d’arte, non più l’attenzione, ma la distrazione. Le due forme sotto cui si presenta l'arte del secolo ventesimo - da una parte la cultura di massa, dall'altra l'avanguardia artistica - sono accomunate entrambe dalla perdita dell'aura: come il cinema abolisce la contemplazione attraverso il rapido succedersi delle immagini, così il dadaismo dissacra letteralmente l'arte, utilizzando materiali degradati in funzione provocatoria. Anzi il cinema diviene l’espressione più compiuta della perdita dell’aura: ogni cosa perde la sua fissità (non solo quella materiale, ma anche quella di permanenza nel tempo a causa del montaggio) e perdendo il suo permanere si desostanzializza. In questa dissoluzione della sostanza, in questo fluire, Benjamin vede le radici della crisi della moderna democrazia: il mutare dei valori di esponibilità anche da parte dell’uomo politico, porta ad un suo moltiplicarsi nell’immergersi nella massa, ma egli preserva pure un carattere di sacralità, mistero, un carattere carismatico che mina alle basi la democrazia. Il dato di partenza è la presenza imprescindibile delle masse: la loro importanza si manifesta per la ricezione dell’arte in due modi; prima come desiderio di avvicinare e ‘impossessarsi’ dell’opera d’arte attraverso la sua riproducibilità; poi trasformando la ‘durata’ dell’opera d’arte (evento unico ed irripetibile) nella fugacità della sua riproduzione, che viene ‘consumata’ sotto forma di immagine nelle illustrazioni dei giornali. Benjamin scorge la possibile strumentalizzazione di cui la riproducibilità tecnica può essere oggetto da parte di leader carismatici. Il principio cui egli guarda è il “Führerprinzip”, il principio di supremazia del capo che è un principio di carisma e di dominio, di magnetismo e attrattività sulle masse: il leader delle masse, proprio come una star cinematografica, appare allo stesso tempo vicino e distante; la riproducibilità della sua immagine da una lato lo rende continuamente presente, quasi conosciuto, dall’altro però ne ribadisce la distanza senza farlo apparire inavvicinabile. Benjamin, in altri termini, scopre qui come la Tecnica è matrice culturale del rinnovamento dell’umanità, ma allo stesso tempo distingue tra “l’essenza rivoluzionaria della Tecnica in quanto tale e l’uso che di essa possono fare forze culturali-politiche reazionarie”. Il ritorno dunque al motto estetista dell’art pour l’art appare come un tentativo condannato di per sé al fallimento e anzi pericoloso perché, rifugiandosi di nuovo nella sacralità dell’arte, precipita in quella “estetizzazione del fascismo” che egli vede alla base dei regimi totalitari che trionfano in Europa mentre egli sta scrivendo l’opera in questione. Se però il fascismo ha estetizzato la politica, il comunismo, cui Benjamin si avvicina, specialmente in relazione all’avanguardia marxiana, ha politicizzato l’arte: ha fatto in modo che essa cioè sfuggendo alla pura contemplazione della sacralità, scaricate di contenuti decisamente politici in grado di emancipare le masse dalla supremazia dei movimenti totalitari. Questo nuovo tempo dell’arte, il tempo della sua malinconica ma necessaria desacralizzazione, è il tempo della vita nervosa, della distrazione, della mobilitazione universale, il tempo in cui l’arte non è più appannaggio di una classe ristretta, ma si massifica, si democratizza, portando alla dissoluzione della frattura fra autore e pubblico: lo choc metropolitano è l’oggetto ultimo dell’indagine di Benjamin. Eppure tutta la vita Benjamin sarà in bilico tra lo smarrimento per un sacro perduto (la casa dell’Essere) e la speranza per un futuro migliore delle masse.
In questa metamorfosi dell’elettore in pubblico sta tutto il senso di una riflessione tanto tesa e lucida e non sta a me riportare, a controprova, quanto di recente la politica riserva.
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