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Quando dico per me, intendo oggettivamente.
Il primus movens è una tela bianca, rettangolare, tanto neutra e piatta da sembrare metafisica. Eppure quella tela è costata duecentomila franchi, una cifra spropositata anche solo a sillabarla. A ben guardarla, da quel bianco emergono delle sottili linee oblique, fitte e appena in rilievo, e un certo sentore di rosso, più che sfocato, ma pur sempre presente. No, in effetti la tela non è bianca, è un coacervo di emozioni e risentimenti che su questo spazio vuoto scandiscono il tempo della dissoluzione. Perché l’arte contemporanea è solo il pretesto per far esplodere le ipocrisie, la rabbia, l’odio che hanno tenuto insieme i tre amici di questa storia. Un pretesto che è però tanto scarno quanto efficace, tanto muto quanto scenicamente esplosivo perché fa da controcanto alle liti che fin da subito tessono le fila della fine. E se aleggia l’atmosfera dell’assurdo, è perché a volte davvero è l’insignificante accidente del concreto, un quadro, un piatto sbagliato, un vestito poco apprezzato, a far crollare gli edifici più solidi.
Da più parti questo dramma di Yasmina Reza, già autrice di Dio del massacro, è stato definito una commedia amara, ma, a dire la verità, non si ride mai, nemmeno a denti stretti. La scrittura tagliente scava con corrosiva tenacia nelle pieghe fangose dei personaggi e ne fa risaltare le contraddizioni, costringe i tre amici in una stanza della tortura che non lascia loro scampo perché quella tela è talmente fuori da ogni logica che tutto diventa possibile. Non conosce il correttivo dell’ironica Yasmina Reza, no, piuttosto dispiega l’umorismo sfigurante, l’amplificazione teatrale della scena, per creare un vuoto in cui far risuonare, ancora di più, la caduta di quei veli semitrasparenti, impalpabili, che attutiscono le torsioni difficilissime delle relazioni umane. E anche il finale, in cui alcuni hanno visto uno spiraglio di luce, celebra invece l’eutanasia di un rapporto non più possibile.
Quello che più si apprezza di questa opera teatrale, è la scrittura intelligente di Yasmina Reza, la disinvoltura con cui scrive pensando al pubblico, la percezione di come ogni singola frase sia ideata per essere recitata e non semplicemente letta. E allora le variazioni di tono che potrebbero far storcere più di qualcuno, in realtà, si rivelano calibrate alla perfezione. L’atmosfera godottiana, la rarefatta impalpabilità della scena, ben si adattano alla semplicità della trama e, paradossalmente, riescono a rifinire un’atmosfera apparentemente spoglia. L’unico problema è che se in Beckett la sospensione è l’unico spazio possibile per l’attesa, qui invece è una sorta di gabbia che impedisce alla scrittura di sollevarsi da se stessa. Detta altrimenti, “Arte” resta un buon libro, piccolo, denso, aterogeno, ma proprio in questo suo essere ripiegato su se stesso, pensato e concluso, è in un certo senso “facile” e alla fine della lettura lascia un vago senso di insoddisfazione.
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