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«Figurare coi grandi»
«Oh! Chi volesse dire… chi volesse discorrere su quel che succede in villa, vi sarebbero da far de’ tomi. Si vanno a struggere i poeti per far commedie? Vengano qui, se vogliono fare delle commedie».
Proprio alla consuetudine ormai degenerata del soggiorno in campagna Goldoni volge lo sguardo nel 1761, poco prima di lasciare Venezia, per colpire vizi, debolezze e contraddizioni di una borghesia infiacchita e decadente. Ispiratrice, protagonista e destinataria delle opere goldoniane, un tempo cuore pulsante del commercio della Serenissima, la classe borghese è ormai avviata sulla strada di un declino che sembra inesorabile. Goldoni, dapprima fervido ammiratore della figura di Pantalone, diventa ora un osservatore critico e distaccato della sua involuzione, attento a coglierne e a rappresentarne ogni aspetto con lucidità: da una parte il rustego, gretto, avaro, ottusamente legato al passato, dall’altra i difetti opposti che fanno bella mostra di sé nella Trilogia della Villeggiatura, lo sperpero di denaro, la smania di comparire, l’eccesso di ostentazione sociale. Nelle tre commedie che compongono la trilogia Goldoni racconta dunque le avventure e le disavventure di un gruppo di borghesi più o meno giovani determinati ad imitare gli aristocratici, pur non possedendo i mezzi necessari, e ad avere una villeggiatura più sfarzosa di quella dei conti e dei marchesi. «L’ambizione de’ piccioli», scrive Goldoni nella prefazione alla prima commedia, «vuol figurare coi grandi, e questo è il ridicolo ch’io ho cercato di porre in veduta, per correggerlo, se fia possibile». È così che il giovane Leonardo, sebbene già indebitato per la villeggiatura precedente, non esita ad acquistare a credito senza freni, ignorando i saggi consigli del servo Paolino, il quale lo avvisa – ed è proprio ciò che accadrà – che al ritorno si troverà alla porta una folla di creditori. Leonardo e sua sorella Vittoria sono disposti a tutto pur di “ben figurare” in campagna, che è “di maggior soggezione della città”: in villeggiatura, dove tutti sfoggiano un lusso scandaloso e temono il giudizio degli altri, i pettegolezzi, le insinuazioni malevole, è fondamentale non dare l’impressione di trovarsi in cattive acque, pena la scomparsa dalla scena sociale.
Per questi “Pantaloni mancati”, che rifuggono dal “negozio” borghese, dalle responsabilità, dal pagamento dei conti, dalle restrizioni comportamentali imposte alla loro classe sociale, il soggiorno in campagna ha perso del tutto l’originaria funzione economico-produttiva ed è solo occasione di ozio, lussi sfrenati e sperpero dei patrimoni, nel folle – ma divertentissimo – tentativo di imitare o addirittura superare le abitudini di una classe sociale, quella aristocratica, ancora più decadente della borghesia.
Il risultato è solo una messinscena imperfetta, come scrive Michele Bordin nelle sue pagine sulla Trilogia della Villeggiatura, e portatrice di conseguenze negative su tutti i fronti. Allo spreco di denaro, tra il gioco, abiti e banchetti, al punto che Leonardo sarà costretto a chiedere aiuto all’avaro zio Bernardino, il rustego protagonista della scena più celebre della trilogia, si uniscono la spregiudicatezza e la libertà eccessive che in villeggiatura regolano i rapporti tra i sessi: è così che Giacinta, promessa sposa di Leonardo, può intrecciare un flirt pericoloso con il bellimbusto Guglielmo, mentre l’anziana e sciocca Sabina corteggia senza sosta lo scroccone Ferdinando, più giovane di lei e interessato soltanto al suo denaro. La trilogia si chiude infine con una sfilza di matrimoni senza amore, frutto spontaneo della logica distorta della villeggiatura (dormire di giorno e giocare di notte, andare in campagna d’inverno e per condurvi la stessa vita della città) e dell’abbandono dei vecchi valori mercantili (la tranquillità domestica, il culto della reputazione, la parsimonia, l’esercizio della mercatura, il rispetto delle gerarchie sociali). Valori che infine saranno recuperati da Giacinta, una delle figure più complesse e affascinanti nella ricca galleria dei personaggi femminili di Goldoni, che nelle ultime scene rinuncia alle smodate follie della villeggiatura e alla sua passione per Guglielmo proprio nel nome dell’onore, della reputazione, del rispetto degli impegni contratti.
Giacinta sembra aver compreso ciò che Goldoni ha imparato dal suo grande maestro, Molière: che la pretesa di imitare comportamenti non affini alla propria natura è una delle maggiori fonti del ridicolo. E se la commedia è uno specchio che ha il compito di rappresentare vizi e virtù e porli in ridicolo, per spingere il pubblico a riflettere, riconoscersi nello specchio della scena e correggersi, la Trilogia della Villeggiatura, brillante, divertente e intramontabile, riesce perfettamente nell’impresa.