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“Non sono che una donna, ma possiedo la ragione.”
Mi sono sempre domandata che cosa sarebbe accaduto se il governo del mondo, fin dagli albori dell’umanità, fosse stato nelle mani delle donne invece che in quelle degli uomini. I popoli si sarebbero scannati vicendevolmente così come si è verificato nel corso della storia? Le guerre avrebbero scandito in modo altrettanto inevitabile le vicende del genere umano? È difficile rispondere perché, anzitutto, sii deve riconoscere che se da un lato ci sono mancate fin dall’inizio la forza fisica e una dose in più di testosterone, dall’altro non sono mai state sconosciute neppure a noi donne qualità eccelse come la crudeltà, l’avidità e la sete di potere che condividiamo senza complessi d’inferiorità con l’altro sesso. Esiste però anche una terza considerazione di cui tener conto: la donna è madre e vedere i propri figli – e in generale i propri uomini – partire con in mano una lancia o un kalashnikov, lasciandoli immolare sull’altare di quei miti (patria e impero, gloria e onore) strumentalizzati dai governanti guerrafondai di ogni tempo e luogo, ritengo non sia stata la massima aspirazione di nessuna donna. Insomma, inutile interrogarsi su tale questione: forse avremmo dichiarato e organizzato guerre peggio degli uomini o forse ci saremmo adoperate per stringere il mondo in una sorta di abbraccio d’amore universale… Di certo, non lo sapremo mai.
Le donne che porta in scena quel genio poetico di Aristofane non lasciano e non hanno dubbi: la pace è l’unica via da percorrere. La scelgono, la vogliono, la impongono. E ci riescono facendo ricorso a un valido argomento, rispetto al quale nessun uomo (in verità, neanche una donna, ma a quanto pare sull’altra categoria ha maggior presa) può restare del tutto indifferente: il sesso. Ben consapevoli del potere insito nel proprio corpo quale strumento di ricatto, le donne ateniesi e quelle di altre poleis greche, capeggiate da Lisistrata, promotrice della bella pensata e portatrice già nel nome della sua missione (“colei che scioglie gli eserciti”), occupano l’acropoli sullo sfondo di un’Atene del V secolo a.C. ormai sfinita dal lungo conflitto del Peloponneso, dopo aver giurato di negarsi carnalmente a mariti e amanti fino alla rinuncia incondizionata da parte di questi ultimi a combattere sui vari fronti che li tengono lontani da casa per diverso tempo. È una decisione non facile da prendere, come si evince dai tentennamenti iniziali e da qualche successivo tentativo di defezione da parte di alcune, presa davvero a malincuore. “Eppure bisogna farlo; abbiamo troppo bisogno di pace” (v. 144), conclude la spartana Lampitò. E gli uomini? Come prevedibile, non prendono bene lo sciopero sessuale attuato senza pietà dalle loro donne, sciopero che vedono, oltre che come un intollerabile venir meno dei doveri coniugali, pure come qualcosa di assolutamente insensato: “Mi fai star male e soffri anche tu” (vv. 892-893), dirà un marito alla moglie; prenderle con la forza significherebbe poi penare per nulla poiché, come sostiene Lisistrata, se non piace a lei non può piacere neanche a lui. Alla fine, piegati dall’astinenza forzata più che dall’assennatezza e dalla bontà delle intenzioni dell’altra parte (“È una pena; andiamo per la città tutti curvi, come se reggessimo delle lanterne”, vv. 1002-1003), gli uomini accettano, ma non ci fanno comunque una bella figura: ottusi, indecisi sul da farsi fino all’ultimo, vorrebbero una cosa senza dover necessariamente rinunciare all’altra. E non si fanno amare: “Io gli voglio bene, certo; ma è lui che non vuole lasciarsene volere” (vv. 870-871), dice sconsolata del proprio consorte una delle occupanti dell’acropoli. Non sono dunque alte motivazioni a spingerli a tradire la vocazione militaresca: sic et simpliciter, piuttosto che rinunciare al sesso, meglio invece rinunciare a fare la guerra, almeno per il momento; del resto, riprendendo Catullo, anche ciò che dice un uomo può essere scritto nel vento e nell’acqua che rapida passa.
Decisamente attuale, questa commedia, dal momento che la guerra, ahinoi, risulta tema sempre in voga, pur a distanza di ben oltre due millenni dalla stesura dell’opera. Fortissimo il personaggio della non più giovane Cleonice con le sue spudorate battute a doppio senso; delizioso quello di Mirrina, protagonista di un logorante giochetto di seduzione ai danni del marito Cinesia; semplicemente meraviglioso quello di Lisistrata che pone – e impone – finalmente la donna al centro della scena di un lavoro teatrale. Non la protagonista femminile passiva e rassegnata al fato, lamentosa e patetica sperimentata fino ad allora da un certo tipo di tragedia tacciata di misoginia, come ad esempio la Medea di Euripide, bensì un personaggio che lotta per ciò in cui crede, che ha voglia di fare e di farsi soggetto attivo anche in un mondo governato dagli uomini, dinnanzi ai quali non ha timore di parlare a testa alta mentre loro si ostinano a guardare il suo corpo e a non ascoltare il suo cervello. Aristofane è stato bravissimo a mettere nero su bianco tutto ciò: ecco perché mi piace molto questa commedia, un vero capolavoro del teatro antico!
Un testo, a tratti, forse spinto e irriverente, ma senz’altro carico di coraggio; lo stesso coraggio che servirebbe al mondo ancora oggi per scegliere la pace, la sola via che tutti dovremmo percorrere, donne e uomini insieme.