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L’abito non fa il monaco
Come ci spiega l’autrice stessa nella postfazione, questo saggio nasce come una lectio magistralis per il Festival degli Scrittori tenutosi a Firenze nel 2015. Invitata a parlare dello scrivere su un tema aperto, Jumpa Lahiri sceglie di riflettere su un elemento particolare dei libri, la loro copertina. E lo fa partendo da un semplice paragone, quello con i vestiti che indossiamo.
La scrittrice statunitense di origini indiane ha imparato fin da piccola come gli abiti si facciano portavoce della nostra identità, cultura, appartenenza. Lo ha imparato quando, per compiacere la madre, era costretta a indossare vesti tradizionali bengalesi che la facevano sentire derisa e non accettata. O quando, in visita in India, la sua diversità balzava immediatamente agli occhi attraverso tessuti e tagli, etichettandola come straniera.
L’abito fornisce spesso un primo giudizio sulla persona che lo indossa, indicandone il gusto, la personalità, lo stato sociale. Allo stesso modo, una copertina sgargiante fa allontanare immediatamente il lettore in cerca di contenuti profondi, così come una grafica austera impedirebbe all’amante del rosa di riconoscere il proprio genere preferito. La copertina, quindi, come il primo vestito di un libro, dovrebbe essere capace di tradurre fedelmente in immagine il significato delle parole, dando una corretta interpretazione visiva e promozionale del testo.
La copertina oggi, però, non deve solo rispecchiare il senso e lo stile di un romanzo, ma assume un ruolo sempre più commerciale. Deve abbellire la vetrina e catturare l’attenzione del lettore distratto, arricchendosi di dati di tiratura, premi e riconoscimenti dell’autore, citazioni di recensioni positive.
Ma che succede quando uno scrittore non riconosce nel vestito scelto dagli editori l’identità del proprio scritto? Non sarebbe allora preferibile una divisa capace di distogliere l’attenzione dalla veste per concentrarsi sulle nude parole, come nelle collane? La copertina è davvero irrilevante rispetto al libro o ne è una sua componente vitale?
Forse entrambe le cose. Questo breve saggio, pur non approfondendo esaustivamente il tema, offre diversi spunti di riflessione secondo l’interessante prospettiva di una donna lettrice e scrittrice, che nel corso degli anni ha visto spesso le proprie parole ammantate da brutte grafiche traditrici o da banali immagini stereotipate di elefanti e mani dipinte con l’hennè.
Una lettura curiosa, da consigliare soprattutto a chi, come me, ha sempre pensato che le parole siano superiori all’involucro che le confeziona, sorridendo di fronte all’attenzione per le copertine presenti in molti blog di lettura.