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Tragico conoscere
Tragedia dall’incalcolabile fortuna nei secoli, fu definita dall’autorevole voce di Aristotele nella Poetica la perfetta concretizzazione dei meccanismi dell’azione tragica: il passaggio da una situazione di felicità ad una di infelicità attraverso un mutamento non dovuto a un errore ma ad una peripezia e/o ad una agnizione, un riconoscimento, che è quanto accade nell’Edipo re.
Nel prologo troviamo Edipo, divenuto re di Tebe dopo aver liberato la città dal terribile mostro della Sfinge risolvendo il suo enigma, alle prese con la pestilenza che affligge la popolazione. L'oracolo di Apollo ha vaticinato che la città è macchiata dalla presenza dell’assassino di Laio, predecessore di Edipo, ucciso da briganti sulla strada verso Delfi. Edipo proclama dunque un bando che prevede l’esilio per l’assassino e per chiunque lo nasconda, lanciando sul responsabile delle maledizioni. Segue uno scontro verbale con l’indovino Tiresia, interrogato al fine di scoprire l’identità di colui che macchia Tebe; questo però ritiene più opportuno non parlare. Di fronte all’insistenza dell’adirato Edipo, Tiresia gli dice che l’assassino è lui. Il re inizia dunque a sospettare che lui e Creonte tramino per spodestarlo, generando l’indignazione sia di Tiresia, che gli predice che il colpevole sarà scoperto entro la giornata e mendicherà in solitudine fino alla fine dei suoi giorni, sia di Creonte, con cui ha una forte discussione. Interviene a separarli Giocasta, moglie di Edipo e sorella di quest’ultimo, la quale lo invita a non prestar fede agli oracoli: le era infatti stato predetto che Laio sarebbe morto per mano di suo figlio, invece è stato ucciso a un trivio da briganti mentre si recava a Delfi. A sentir queste parole, Edipo inizia a sospettare di esser lui l’assassino del re, ricordando di aver ucciso un vecchio uomo e la sua scorta a un trivio mentre si allontanava da Corinto: aveva infatti avuto un orribile vaticinio, secondo cui avrebbe ucciso suo padre e si sarebbe unito a sua madre. Manda dunque a chiamare l’unico servo di Laio sopravvissuto all’aggressione fatale, il quale si era subito allontanato dalla reggia tebana quando Edipo fu incoronato. Giunge poi un messo da Corinto ad annunciare la morte del re Polibo, padre di Edipo, che dunque si rincuora a sentir il fallimento di una parte della profezia. Quando chiede di sua madre, tuttavia, il messo gli svela che Polibo e sua moglie non hanno con lui alcun legame di sangue: egli stesso l’aveva preso quando era ancora in fasce da un servo di Laio, lo stesso servo sopravvissuto. La terribile verità, già intuita da Giocasta che tenta di distoglierlo dall’indagare oltre, è per Edipo vicina: il servo di Laio, giunto a palazzo, svela di non aver ucciso il neonato come ordinatogli.Il protagonista, in preda alla disperazione rientra urlando nel palazzo. Un messaggero annuncia dunque il suicidio di Giocasta e l’accecamento di Edipo con delle fibbie d’oro, in quanto non c’è per lui più nulla che valga la pena vedere. Compare poi Edipo che saluta e compiange il triste futuro delle sue figlie e implora Creonte, l’unico ora in grado di reggere la città, di esiliarlo, in quanto odiato dagli dei.
Il protagonista svolge una profonda analisi su se stesso per scoprire il mistero che avverte nel suo passato; tuttavia il progressivo disvelamento di ciò che non conosce lo porterà a scoprire una terribile verità, da cui molti tentano di distoglierlo (Tiresia, Giocasta, il servo di Laio), ma che costituisce il fulcro della vicenda esistenziale di Edipo. Identificandosi e non identificandosi nell’assassino di suo padre e nel marito di sua madre, Edipo marca un distacco tra la sua volontà e il suo destino. Sia lui che Giocasta hanno tentato di sfuggire al futuro vaticinato loro dagli dei, fallendo miseramente nei loro intenti. Si realizza così la vittoria del destino, in cui si manifesta il supremo volere divino, sulla volontà: Edipo è responsabile di un’azione compiuta involontariamente in adempimento ad una sorte cui riteneva di potersi sottrarre; ma il fato è cieco e si realizza al di là del volere umano. Si tratta di un tema che doveva profondamente colpire lo spettatore ateniese della seconda metà del V secolo, in cui si era ormai affermato il razionalismo, legato alla volontà e al concetto di responsabilità. La moderna cultura veniva così a scontrarsi con la lontana cultura magico-primitiva tipica del mito, che, per quanto lontana, non poteva che generare inquietudine e riflessione sul tema della colpa.
Il conoscere assume così nella vicenda di Edipo un alone di tragicità: simbolo della coraggiosa indagine su sé stessi, la sua figura si carica tuttavia anche di una valenza negativa. Chi vuol sapere più di quanto gli è concesso, pecca di tracotanza e viene inevitabilmente punito scoprendo la terribile verità che si cela dietro l’apparenza della realtà. Significativa è in questo senso la punizione che Edipo sceglie di autoinfliggersi: egli si priva degli occhi, quegli occhi colpevoli di non aver visto come avrebbero dovuto e, allo stesso tempo, di aver guardato dove non avrebbero dovuto. In tal modo il protagonista rifiuta platealmente la sua realtà.
Altra tematica al centro della tragedia è dunque quella del mutevole destino umano. “Guardate uomini di Tebe: Edipo è questi, che sciolse l’enigma famoso e fu potente tra gli uomini. Nessuno mirò senza invidia la sua fortuna; ed ora vedete in quale gorgo di sciagura è precipitato. E allora fissa il tuo occhio al giorno estremo e non dire felice uomo mortale, prima che abbia varcato il termine della vita senza aver patito dolore”. Così canta il coro nel canto d’esodo, chiarificando mirabilmente il concetto che il tragediografo esemplifica nella vicenda di Edipo: la vita dell’uomo è sconvolgentemente fragile e tutto ciò che lo riguarda è soggetto al cambiamento incontrollabile. Il passo dalle stelle all’abisso è terribilmente breve.
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Ferruccio
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