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SCRIVERE E' UNA GRANDE RESPONSABILITA'
Simone Weil, grande intellettuale e grande donna della cultura europea, nasce a Parigi nel 1909. Nella sua breve esistenza (muore di tubercolosi nel '43, a soli 34 anni) aderisce alla cultura di Sinistra, ma in modo molto particolare: pone in primo piano, per una rivoluzione, l'accesso dei lavoratori al sapere.
I brevi testi che compongono "Morale e letteratura" vengono scritti nei primi anni '40, quindi da una 'ragazza' trentenne (quanta saggezza ad un'età ancora così giovane!).
L'autrice pensa che ognuno creda di vivere 'nella realtà'; ma nella vita quotidiana spesso ne percepiamo solo la superficie e ce la accomodiamo attraverso nostri meccanismi edulcoranti e distorcenti, cioè viviamo nella menzogna. Non solo in quella con cui ci presentiamo agli altri, ma pure (forse, soprattutto) in quella con cui alimentiamo noi stessi.
La grande letteratura può essere un'ancora di salvezza: può "destarci alla verità". A ciò concorrono, però, esclusivamente le opere degli scrittori grandissimi (su questo, la Weil è perentoria), composte nel momento della loro maturità: "ci danno sotto forma di finzione qualcosa di equivalente allo spessore stesso della realtà, quello spessore che la vita ci presenta ogni giorno, ma che non sappiamo cogliere, perché stiamo bene nella menzogna". Quindi letteratura come dimensione etica: nelle opere dei grandissimi scrittori "il bene e il male ci appaiono nella loro verità".
Ricordiamoci che, mentre scriveva queste pagine, l'autrice era al cospetto della follia devastatrice della Seconda Guerra Mondiale. Probabilmente tale contesto rende più acute e lancinanti le sue riflessioni; infatti dice di credere "nella responsabilità degli scrittori, dell'epoca appena trascorsa, nella presente sventura". A fine conflitto, anche Elio Vittorini, su "Il Politecnico", si interrogava, benché con accenti un po' diversi, sulle 'colpe' della cultura precedente.
Certamente la Weil aveva ben presenti gli epigoni del Decadentismo, la nuova letteratura europea e le Avanguardie: "Il carattere essenziale della prima metà del Novecento è l'indebolimento e quasi il venir meno della nozione di valore" , e ricorda che "gli scrittori erano per eccellenza i guardiani del tesoro che è andato perso, e alcuni si sono vantati di questa perdita" (Pensava forse ai Futuristi?).
Aggiunge: "Il Dadaismo e il Surrealismo (...) hanno espresso l'ebbrezza della licenza totale, ebbrezza in cui si tuffa lo spirito quando, rigettando ogni considerazione di valore, si abbandona all'immediato". Il discorso si estende oltre: pensa che la grande maggioranza degli scrittori abbia abdicato al "sentimento di valore": "parole quali virtù, nobiltà, onore, onestà, generosità sono diventate quasi impossibili da pronunciare oppure hanno assunto un significato bastardo". Qui si può pensare a vari autori, ma preferisco non fare nomi perché 'non sono solo questo' .
Nota poi che "la letteratura del Novecento è essenzialmente psicologica", tendente a rappresentare stati d'animo "disponendoli sullo stesso piano (...) come se il bene e il male fossero loro estranei".
Ancora un pensiero che, per noi, suona un po' come un monito: "Se mai le sofferenze attuali porteranno a una 'rieducazione', questo non si attuerà grazie agli slogan, ma nel silenzio (...) attraverso le paure, le miserie, i terrori, nel più intimo di ogni spirito".
E i grandi libri, come prezioso lascito che le generazioni si tramandano, saranno ancora lì, se vogliamo, a porci domande, a confortarci, ad aiutarci a distinguere l'essenziale.
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Commenti
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Mi pare che oggi in Italia, purtroppo, quando si parla di letteratura, spesso si parli di mercato, di 'successo' (termine divenuto ormai insopportabilmente volgare).
Ogni tanto mi piace confrontarmi 'ad armi impari' con qualche buon testo di critica letteraria.
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