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Il sogno di un hippie
Perché Neil Young ha scritto questo libro? Perché si è ripulito da alcool ed erba e non riesce più a buttar giù una canzone, perché si è rotto un alluce in piscina, perché è un modo facile per fare i soldi (vedi alla voce Keith Richards). Di sicuro lo ha fatto a modo suo, da testone un po’ egocentrico qual è, e come si descrive, abituato a prendere una decisione a poi portarla avanti come un carrarmato: trattandosi di un artista dalla carriera ondivaga, non ne poteva venir fuori altro che un libro ondivago, dove il passato ha lo stesso peso del presente e del futuro e in cui i capitoli sono messi a caso, a seconda di quanto passava per la monte del loro autore al momento di metterli su carta. Perché il Canadese ha deciso in partenza che questo è il suo libro e nessun’altro ci deve mettere mano (è ‘The loner’ si o no?) si tratti di un ghostwriter – non sia mai! – o di un editor: figura che, però, sarebbe stata più che mai necessaria perchè Young è un signor musicista, ma uno scrittore alle prime armi e, grazie all’occhio di qualcuno esperto, ci si sarebbero potute risparmiare le ripetizioni e le pagine che non vanno da nessuna parte, appesantendo la lettura magari proprio appena dopo un momento particolarmente interessante. Insomma, ‘buona la prima’ funziona con il rock ‘n’ roll, assi meno con la scrittura. Va bene che Neil abbia a cuore i suoi progetti presenti e futuri, ma quando si legge per l’ennesima volta, e con parole simili, di Puretone/Pono (formato digitale con qualità da analogico), di Linevolt (auto elettrica) o del nuovo disco dei Crazy Horse che verrà (quando? Boh, mah…) si finisce per perdere la pazienza e accelerare senza rimpianti. Per non parlare della descrizione minuziosa, da vero appassionato, delle automobili o delle case della sua vita nonchè dei trenini, il che, se non altro, rivela il maniaco di meccanica ed elettronica nascosto nell’artista: in mezzo a tutto questo, i ricordi escono a volte come lunghi capitoli, a volte come schegge improvvise. Di ordine cronologico, ovviamente, neanche a parlarne, con frequenti ritorni negli stessi luoghi e tempi, magari con un’angolazione appena diversa: gli anni giovanili (dagli Squires ai primi Buffalo Springfield) sono una specie di manuale di sopravvivenza che i giovani gruppi dovrebbero leggere, ma le parti migliori sono quelle dedicate a illuminare i primi anni Settanta, tra l’età hippie che andava morendo e l’avvio del successo discografico grazie anche a una dedizione alla musica che mette in secondo piano qualsiasi altro aspetto. Un po’ a denti stretti, verso la fine, arriva l’ammissione di essere stato a volte intrattabile ed eccessivamente spigoloso – in poche parole: uno stronzo – ma chi è alla ricerca di rivelazioni esclusive rimarrà di certo deluso: Young dà ragione ai Lynyrd Skynyrd riguardo ad ‘Alabama’, ma è anche capace di buttar lì una Grace Slick che gira nuda per casa e poi di passare subito ad altro (a parte il monumento alla moglie Pegi, le figure femminili sono quasi sempre in secondo piano). La musica, dunque: molto spazio è lasciato a colleghi e collaboratori che diventano amici a volte inseparabili in una carriera che si svolge senza particolari intoppi (anche se i periodi più bui vengono un po’ tralasciati) e regala una stabilità economica costante che consente a Young di realizzare presto i suoi desideri (controbilanciata, peraltro, non una notevole serie di sfighe sanitarie, sia personali sia che coinvolgono la sua famiglia). Il tutto raccontato con una lingua il più semplice possibile per precisa scelta – tanto che si nota la differenza quando è la penna di Jimmy McDonough a ricostruire le parole di David Briggs – e rivolgendosi spesso al lettore dandogli del tu, anche per invitarlo a mollare il volume, in caso non piacesse: un atteggiamento nello stile del ruvido personaggio, ma, se non ci fosse scritto ‘Neil Young’ in copertina, si finirebbe per essere molto meno indulgenti. ‘Sii grande o sparisci’ vale anche per i libri, Neil! (Ultima nota per il titolo italiano, bruttissimo: non si poteva fare uno sforzo e tradurre l’orignale ‘Waging heavy peace’?).
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