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Soffrendo conoscere
Due sono i poli da cui la trilogia di Eschilo è generata: la tensione costruttiva tra Dike (la Giustizia) del sangue, matriarcale, e Dike apollinea, entrambe rappresentate da Clitemestra ed Oreste, tensione che scioglie il dubbio atroce, la scelta tra i due poli, nel riconoscimento di una Dike cosmica, superiore, che la legge del “soffrendo conoscere”.
Così Oreste, figlio di una madre (Clitemnestra) che ha assassinato il marito (Agamennone), e di un padre che ha ucciso la figlia(Ifigenia), perseguitato dalle Erinni, furiose divinità ctonie vendicatrici dei delitti di sangue, riesce a raggiungere la salvezza, proprio nella consapevolezza di una norma ben più sentita del “chi agisce, subisce” (cfr. occhio per occhio, dente per dente) che aveva guidato le sue precedenti azioni, e quella della madre. Soltanto l’Areopago, tribunale d’Atene, garante della civiltà della polis potrà redimerlo.
Nel pantano ora delirante ora sublime del pantheon eschileo, tra le vertigini delle divinità olimpiche e i brutali abissi dei demoni, in questo scontro in cui l’uomo precipita nell’animalesco per poi risorgere a nuova vita, stringente pare l’interrogazione di Eschilo sulla giustizia, la quale, nella sua dimensione umana, è condannata ad un’eterna imperfezione, che soltanto la rettitudine divina può trasformare in equità assoluta.
Tuttala poetica eschilea è basata su una fiducia incondizionata in Zeus, trasfigurato in legge cosmica infallibile: Zeus/Dike agisce in virtù di un piano d’ascesi conoscitiva cui tutti, malgrado la resistenza, sono sottoposti. L’Orestea si muove proprio in questa direzione: a saldare l’oscurità dell’animo umano nel conoscenza superiore che proviene dall’olimpico, al fine di sfuggire alla contrapposizione stringente di due elementi (ctonio - solare in tutte le loro manifestazioni) che condannerebbe ad una filosofia ancora cosmica e mediterranea: sangue in cambio di sangue. Non è d’altra parte un caso che alcuni abbiano voluto vedere l’Orestea come uno dei primi segnali di una filosofia antropocentrica come sarà in Socrate Oreste è l’emblema di un uomo che, pur soggetto alle influenze divine, può liberamente scegliere: quella di Apollo (che lo ispira a vendicare il padre uccidendo la madre) è appunto un’ispirazione, non una costrizione. Lo spazio della ragione umana rivendica autonomia, in parte ne è atterrita, ed è in questo dissidio che le divinità non si annichiliscono, ma anzi si unificano, scevre dalle loro passioni umane, in una legge universale che vuole reintrodurre il kosmos nel caos del quotidiano. Il libero arbitrio si salda al destino in un gioco pericoloso il cui esito è determinato da una sorte ben precisa, una legge a cui si è sottomessi. È in questa dicotomia radicale e capitale che si innesta la conclusione della tragedia, in questa incertezza sta la seduta dell’Areopago a condannare anche Eschilo all’irraggiungibile comprensione del mistero dell’esistenza (il giudizio umano non sa infatti decidere o meno sulla colpevolezza d’Oreste).
Eppure rimane Cassandra, profetessa invasata e tremenda, sacrificio del fato, personaggio dall’inesausta complessità, a testimoniare la ferita del mondo, a sottolineare l’effimera vacuità di una vagheggiata saggezza. E dallo scontro irrisolvibile i cui tutti i personaggi sono immersi, emerge la fiducia di Eschilo in un sentimento di phobos, paura, ritenuto ultimo baluardo contro il dissolvimento dei legami civili, ultimo espediente attraverso cui far rispettare le leggi e garantire la giustizia.
(Purtroppo la tragedia risente, per lo stile, della distanza del tempo: troppo maestoso, troppo pedante, troppo solenne per essere piacevole, considerando anche che la pagina scritta annulla magari l'effetto artistico che certamente una rappresentazione dal vivo avrebbe comportato).
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Commenti
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Comunque preferisco Sofocle :-)
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Un po'pesantuccio, ma ho dei buoni ricordi di quest'opera analizzata al liceo proprio quest'anno =)
Ottima recensione, Danny ;-)