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La letteratura in pericolo
 
La letteratura in pericolo 2008-08-01 04:09:35 vitosantoro
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vitosantoro Opinione inserita da vitosantoro    01 Agosto, 2008
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Il neo-umanesimo di Todorov

Parigi. Anni dell’occupazione nazista. Una giovane donna, Charlotte Delbo, accusata di aver cospirato contro gli occupanti, viene arrestata. In carcere non ha diritto a libri, al contrario della sua compagna, reclusa al piano di sotto. È costei che per mezzo di una corda (realizzata intrecciando fili tirati via dalla coperta) calata giù dalla finestra, le fa pervenire una copia della Certosa di Parma di Stendhal. Da questo momento Fabrizio del Dongo diventa il compagno inseparabile di prigionia della donna. In seguito, durante il viaggio in un carro bestiame alla volta di Auschwitz, Charlotte ascolta la voce dell’eroe euripideo Alcesti, che le spiega in che cosa consiste l’inferno verso il quale si dirige e le offre l’esempio della solidarietà. Poi altri eroi, tutti «assetati di assoluto», come Elettra, don Giovanni, Antigone, le fanno visita nel lager.

Anni dopo, ripercorrendo à rebours la sua esperienza di deportata in Spectre, mes compagnons, Charlotte finirà con lo scrivere che «le creature del poeta sono più vere di quelle in carne e ossa, perché sono inesauribili. Ecco perché sono miei amici, miei compagni, grazie ai quali siamo legati agli altri uomini, nella catena degli esseri umani e della storia».

Più di un secolo prima della Delbo, John Stuart Mill era guarito dalla depressione, aiutato dalla lettura dei poemi di Wordsworth. Grazie a loro aveva raggiunto quella felicità vera e continua che può derivare soltanto dalla contemplazione tranquilla delle bellezze della natura.

Dunque, «la letteratura può molto. Può tenderci la mano quando siamo profondamente depressi, condurci verso gli esseri umani che ci circondano, farci comprendere meglio il mondo e aiutarci a vivere». La letteratura ‘serve alla vita’. Sempre. Anche in situazioni normali, lontanissime dai casi estremi prima citati.

È questa la tesi di fondo dell’ultimo lavoro di Tzvetan Todorov, La letteratura in pericolo, breve saggio (84 pagine), in cui il celebre studioso franco-bulgaro racconta in chiave autobiografica la crisi della critica strutturalista per poi perorare un ritorno ad un umanesimo attento ai contenuti umani dell’arte e avverso a qualsiasi pratica critica autoreferenziale.

Infatti, quella che ‘serve alla vita’ è soltanto la letteratura intesa «nell’accezione ampia e pregnante che è prevalsa in Europa fino alla fine del XIX secolo», secondo cui esiste un rapporto biunivoco tra la realtà e l’arte: la seconda aiuta a conoscere la prima, che al tempo stesso agisce su di essa. E Todorov ricorda a questo proposito, Oscar Wilde, sostenitore di una idea di letteratura come creazione di un mondo a partire dalla «materia bruta dell’esistenza reale»; come creazione di «un mondo nuovo che sarà più meraviglioso, più duraturo e più vero di quello che vedono gli occhi della folla».

Questa concenzione dell’arte, e in senso lato della letteratura, ha iniziato a subire un lento ma inesorabile processo di sgretolamento con la messa in discussione da parte di Nietzsche, dell’esistenza stessa dei fatti indipendenti dalle loro interpretazioni e quindi, dell’esistenza stessa della verità, qualunque essa sia.

Si tratta di una nozione che ha permeato le varie tendenze estetiche principali del XX secolo, tuttora influenti tanto nel campo della didattica quanto in quello del dibattito culturale. Tendenze che Todorov esemplifica nella triade formalismo (“la forma prima dell’essenza”) – nichilismo (“il mondo è abominevole”: solo la distruzione e la violenza svelano la verità della condizione umana) – solipsismo (“l’io è infinitamente interessante”). Triade che ha appunto messo la letteratura in pericolo.

Il formalismo infatti, ha esercitato subito dopo il 1968, una tale influenza sull’insegnamento scolastico, costringendolo ad inseguire una linea di equilibrio tra l’approccio alla letteratura attraverso dati esterni, biografici e aneddotici, e l’analisi più attenta delle opere stesse. In questo modo, a scuola si tende a porre maggiore attenzione sugli strumenti dell’analisi letteraria che sulle opere stesse. Tale concezione austera e limitativa è presente anche in buona parte della critica giornalistica e persino in numerosi scrittori, che sono come immobilizzati dal loro stesso desiderio di conformarsi alle teorie che ritengono essere alla moda.

E per uscire dal formalismo – nella ricostruzione dello studioso – si è pensato che non vi fosse altra scelta se non il nichilismo e il solipsismo, che solo in apparenza si oppongono al primo. Formalismo e nichilismo partono infatti, da una base comune. L’autore nichilista non partecipa del mondo che descrive, dato che lo sa vedere dall’esterno. Quello solipsista si attiene unicamente alla sua esperienza personale. Così finisce per dedicarsi principalmente all’autofiction, cioè al racconto caratterizzato da finzione e realtà autobiografica, in cui egli non solo riserva uno spazio amplissimo alla rappresentazione della propria interiorità, ma anche «si libera da ogni costrizione autoreferenziale, godendo così al tempo stesso della supposta indipendenza dell’invenzione e del piacere che deriva dalla valorizzazione di sé».

Ora, la letteratura, a detta di Todorov, può immensamente di più, perché, al contrario dei discorsi religiosi, morali o politici, «non formula un sistema di precetti; per questo motivo sfugge alle censure che vengono esercitate sulle tesi formulate a chiare lettere». Essa fornisce un contributo alla nostra comprensione del mondo.

Non solo. Il grande studioso della letteratura fantastica cita un recente studio del filosofo americano Richard Rorty (Redemption from egotism. James and Proust as spiritual exercises), in cui si sostiene che la letteratura, oltre a porre un qualche rimedio alla nostra ignoranza, ci guarisce anche dall’egotismo, inteso come illusione di autosufficienza. In questo senso, «i romanzi non ci forniscono una nuova forma di sapere, ma una nuova capacità di comunicare con esseri diversi da noi; da questo punto di vista riguardano la morale, più che la scienza. L’orizzonte ultimo di tale esperienza non è la verità, ma l’amore, forma suprema del rapporto umano».

Per questa ragione, la lettura va incoraggiata con ogni mezzo, «compresa quella di libri che il critico di professione considera con una certa condiscendenza, se non addirittura con disprezzo, dai Tre moschettieri a Harry Potter», romanzi popolari che offrono agli adolescenti «una prima immagine concreta del mondo che, possiamo esserne certi, le letture successive renderanno poco per volta più elaborata».

È evidente che il taglio divulgativo e pamphlettistico del libro costringano l’autore a semplificare spesso il discorso, soprattutto nei capitoletti in cui ricostruisce la storia dell’estetica, ponendo al centro il problema dell’autonomia e dell’eteronomia dell’arte, per arrivare ad una sorta di nuovo umanesimo permeato di una vera propria mistica della letteratura.

Un altro punto po’ tirato via, è, ad esempio, l’interpretazione dello sviluppo del formalismo nei paesi dell’Est come necessità di difendere l’autonomia del fatto artistico in un contesto ideologico e autoritario. Qui Todorov ha certamente ragione, ma glissa sul successo di questa tendenza nelle nazioni occidentali, dove la situazione politica era molto diversa.

Al di là di questi aspetti, La letteratura in pericolo ha, tuttavia, il merito di porre l’accento su due questioni essenziali. Innanzitutto fa emergere il ruolo preminente della letteratura nell’educazione interculturale, grazie alla sua capacità di fare vivere come nostri i sentimenti, i punti di vista e i pensieri dell’altro. In altre parole, l'esperienza letteraria ci consente di coniugare consapevolezza e inconsapevolezza, rigore realistico e immaginazione, di trasferirci in una zona franca, dove vivere emozioni intense, lasciando contemporaneamente aperta la possibilità di dire a noi stessi: «tanto questo è un gioco».

L’altro punto centrale sta nel farci riflettere sul ruolo della critica. Todorov definisce lo scrittore come «colui che osserva e comprende il mondo in cui vive, prima di rappresentare questa conoscenza attraverso storie, personaggi, sceneggiature, immagini, suoni». Ciò implica il delinearsi della figura del critico come colui che, a prescindere dalle metodologie usate, è in grado di «trasformare significato e pensiero nel linguaggio comune del suo tempo».

Dunque, la critica non può avere un metodo. E Todorov cita a questo proposito, l’esempio del monumentale studio di Joseph Frank su Dostoevskij, scritto senza alcun pregiudizio metodologico, anzi pronto ad accogliere qualsivoglia input, vuoi strutturale vuoi storico. In questo modo, «permettendo che il pensiero dell’autore sia incluso nel dibattito infinito di cui è oggetto la condizione umana, lo studio letterario di Frank diventa una lezione di vita».

È, dunque, una accezione ‘politica’ della funzione critica quella che sembra emergere dalle pagine del libretto di Todorov, quasi una ripresa della formula benjaminiana del critico come «stratega nella battaglia letteraria». Un’idea di critica dagli obiettivi pragmatici e dallo scopo politico concreto, al di fuori del territorio delle arti: senza un qualche rapporto con l’azione, con la prassi, la critica non ha senso, gira a vuoto. Solo così potrebbe creare nuove sensibilità, aprire nuovi spazi di coscienza, suscitare altre visioni, magari più audaci.



Vito Santoro

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